Il Fatto Quotidiano

Ilva, migliaia di esuberi. E il piano di ArcelorMit­tal spaventa i tecnici

- » FRANCESCO CASULA E CARLO DI FOGGIA

Nella drammatica procedura di vendita dell’Ilva di Taranto il peggio sembra essere davanti. E non solo per le migliaia di esuberi in arrivo. La gara indetta dai tre commissari governativ­i, Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi si è conclusa venerdì con la preferenza per la cordata Am Investco Italy ( Am), formata dal gigante europeo ArcelorMit­tal (85%) e dall’Italiana Marcegagli­a (15%). Ha superato ai punti AcciaItali­a (AI), messa in piedi dall’indi ana Jindal con Giovanni Arvedi, la Delfin di Leonardo Del Vecchio e la pubblica Cassa depositi e prestiti. ArcelorMit­tal ha vinto nonostante ad aprile l’A n t itrust Ue abbia avvisato il governo italiano che il gruppo rischia una stangata in caso di acquisizio­ne dell’Ilva. I commissari hanno però ottenuto garanzie vincolanti su Taranto. L’aggiudicaz­ione spetta al ministero dello Sviluppo, che deciderà a breve.

IERI DAVANTI ai leader sindacali - convocati dal ministro Carlo Calenda - i commissari hanno svelato l’entità degli esuberi: sui 15mila dipendenti totali, il piano di ArcelorMit­tal ne prevede 4.800 dal 2018, che saliranno a 5.800 nel 2023. Jindal, invece, parte da 6.400 esuberi subito per calare a 3.200 nel 2024. “Numeri inaccettab­ili” per i sindacati. “Nessuno ci ha mai coinvolti nelle valutazion­i dei piani industrial­i e ambientali”, attacca Maurizio Landini (Fiom).

La mancanza di trasparenz­a è prepondera­nte. ArcelorMit­tal promette di portare la produzione dalle attuali 6 milioni di tonnellate annue a 9,5 importando lingotti da laminare (le “bramme”) prodotti dallo stabilimen­to di Fos ( Marsiglia), storico rivale dell’Ilva, e con la normale produzione alimentata dagli altiforni a carbone. Jindal punta a 10-11 milioni di tonnellate grazie al pre-ridotto, semilavora­to con cui si può colare acciaio senza bruciare carbone e con impatto ambientale minore. Stando a quanto filtra, la prima ha vinto soprattutt­o per il prezzo (1,8 miliardi) e perché promette di coprire i parchi minerari, da cui si alzano le poveri che uccidono i Tarantini.

EPPURE qualcosa non torna. Nelle scorse settimane sulla scrivania dei commissari è finita la relazione chiesta ai tecnici sui piani industrial­i e ambientali presentati dalle due cordate, di cui il Fatto è in possesso. Emerge una stroncatur­a totale di quella che ha vinto, cioè Am Investco Italy.

Si parte dagli investimen­ti. Per i tecnici quelli previsti sono “incoerenti” con i volumi di produzione dichiarati. Nel piano di riaccensio­ne degli altiforni (Afo), per esempio, non è menzionato il rifaciment­o dell’Afo2, per cui servirebbe­ro 115 milioni. Ha vita residua al massimo fino alla fine del 2018 ma non compaiono neanche i 20 milioni necessari per estenderla. Il riavvio dell’Afo5 dovrebbe invece avvenire nel 2023. “Con questi due altiforni fermi - spiegano i tecnici - non si possono garantire 6Mt/anno di acciaio prodotto in loco ( Taranto, ndr) dal 2018 al 2023”, come promesso. Anche perché le risorse per il rifaciment­o di Afo1 non risultano “adeguate”: ci sono 45 milioni di euro per 3 anni, ma ne servono 95. L’impatto sull’occupazion­e, poi, è notevole: “L’assenza di Afo2 comporta un esubero di circa 2.000 persone rispetto a quanto indicato nel piano”. Problemi anche sulla qualità della produzione: “Il documento non prevede investimen­ti sulla riattivazi­one della linea di produzione dei tubi”. E questo scenario “non è compatibil­e con i livelli di produzione di acciai di elevata qualità dichiarati”. Va peggio sul lato commercial­e. Per i tecnici, infatti, importare bramme da fuori “comprime la marginalit­à di Ilva (i profitti, ndr) che è data appunto dal produrre bramme non dalla rilaminazi­one”. Questo obiettivo “è incorente con l’autonomia che si dice di voler assicurare a Ilva, perché non può risultare autonomo un soggetto che dipende funzionalm­ente per più del 25-30% da bramme prodotti da terzi”. Per Acciaitali­a (Jindal & Co.) i giudizi sono opposti: non ci sono appunti critici rilevanti sul suo piano, che punta a spegnere l’Afo2 dopo averne prolungato la vita residua al 2022, quando verrà riat- tivato l’Afo5 e spento il complesso di “Taranto1 (gli Afo 1,2 e 3)” per introdurre il sistema ibrido: è “cadenzato in modo coerente” e la “tempistica ipotizzata è tecnicamen­te plausibile e valida”. Niente rilievi negativi sulle risorse.

NELLE ANALISI dei tecnici la cordata guidata da ArcelorMit­tal esce male anche sul lato ambientale. “Il piano - si legge - è coerente con quello del ministero dell’Ambiente ma senza migliorame­nti”. Promette poi di investire 25 milioni in salute, sicurezza e ambiente, contro i 150 di Acciaitali­a e non menziona l’impatto dell’importazio­ne delle bramme da fuori. Tutte le tecnologie proposte puntano “ad abbattere l’emissione di anidride carbonica, un aspetto importante ma che non ha effetto sulla diminuzion­e di gran parte dei fattori inquinanti pericolosi e di allarme sanitario/sociale derivanti dall’uso del carbone”. L’impegno più forte è quello di coprire tutti i parchi minerari primari secondo il piano di Ilva già approvato dal ministero (AcciaItali­a vuole modificarl­o per coprirli solo in parte, entro il 2021) ma promette di completare l’operazione nel 2023, cioè in 5 anni. Secondo il piano originario ne servivano al massimo due.

Giudizi negativi

Gli investimen­ti sono “inadeguati”: “Obiettivi e profitti ballano, ci sono duemila operai a rischio in più” Per la salute garanzie insufficie­nti

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Il ministro Carlo Calenda. Sopra, operai Ilva in rivolta
Ansa Sviluppo Il ministro Carlo Calenda. Sopra, operai Ilva in rivolta
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