Il Fatto Quotidiano

L’importanza di chiamarsi Pollock e scrivere western

- » VINS GALLICO

Chiamarsi Pollock non deve essere per nulla facile, soprattutt­o se ti chiami Donald Ray e non Jackson. A maggior ragione se il tuo omonimo molto più famoso è stato un guru dell’innovazion­e, facendo le capriole sulle tele, schizzando colori dalla bicicletta, e tu invece sei un romanziere e con il più classico degli stili americani ambienti il tuo ultimo romanzo, La tavola del paradiso nel western, ovvero il più classico degli scenari americani.

MITO FONDANTE della cultura Made in Usa, l’epopea western ha avuto fuori dal grande schermo maestri passeggeri, da John Williams a Cormac McCarthy, autori che facevano le loro comparsate fra carovane, sceriffi e balle di fieno, per poi tornare ad altri mondi narrativi. Perché il western è comodo, facile da sfruttare in quanto banalmente manicheo. E un paese bacchetton­e e complesso come gli Stati Uniti ha bisogno di sapere chi sono i buoni e chi i cattivi. Certo, l’etica western era già stata scombussol­ata grazie all’apporto di Oakly Hall che nella sua Warlock ribaltava i ruoli morali, non più collegati all’aspetto razziale, ma è con Donald Ray Pollock che si compie un ulteriore passo in avanti, con lo slittament­o del tempo cronologic­o della vicenda, la metafora socio-politica e l’elemento autoironic­o del genere che prende per il culo sé stesso (come Tarantino fece con il pulp o i film sul karate).

Non siamo più nel Diciannove­simo secolo, Buffalo Bill è ormai da decenni un fenomeno circense, e nel 1917 gli Usa sono ufficialme­nte in guerra. Contro la Germania, un paese che Ellsworth ed Eula, coppia di contadini dell’Ohio, ignorano persino dove si trovi. Eppure sembra che Eddie, loro uni- co figlio, sedicenne ubriacone, si sia arruolato proprio per raggiunger­e le truppe sul suolo teutonico. Dopo aver perso i loro risparmi in una truffa ridicola, il ragazzo è tutto quello che rimane ai due (in realtà a Ellsworth rimangono anche delle damigiane di vino).

Da un lato una famiglia che cerca un figlio, dall’altro una che perde i genitori: Cane, Cob e Chimney Jewett sono orfani di madre, tirati su dal padre Pearl, un uomo semplice, che si lascia convertire nella prospettiv­a della “tavola del paradiso” che dà il titolo al romanzo. L’ottica religiosa di Pearl si può riassumere così: non im- porta quanto soffri su questa terra, dopo avrai la ricompensa – anzi più soffri, meglio sarà. Quando Pearl viene trovato morto in un campo, sfiancato dall’ennesimo lavoro malpagato, i tre ragazzi Jewett decidono che l’unica conversion­e possibile sia quella alla vita da malviventi. Iniziano così il loro viaggio on the road dal confine fra Georgia e Alabama alla ricerca del successo o per lo meno della sopravvive­nza.

Tutto qua il plot di Pollock, in questo incrocio di due storie, che però ripercorre una società degli ultimi, dei reietti senza patetismi retorici e con la capacità di far sorridere. Il paragone con Huckleberr­y Finn è quasi istintivo davanti a personaggi surreali, come l’ispettore sanitario Jasper Cone, serissimo conoscitor­e dei cessi dell’Ohio, da cui riesce a trarre la storia dei nuovi costumi.

UNO SCRITTORE fiume Donald Ray Pollock, sconsiglia­to agli amanti del minimalism­o, ma da scoprire per chi apprezza i narratori russi ottocentes­chi o il flusso di Tom Wolfe, con cascate di aggettivi. I tedeschi lo hanno amato, per loro La tavola del paradiso è il miglior giallo (!) dell’anno.

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