“Se non superiamo i confini dentro di noi la realtà fa paura”
La scrittrice indiana: “Non sono un’attivista. I romanzi servono per raccontare tutta la verità”
Per il lancio mondiale del suo secondo romanzo, Il Ministero della Suprema Felicità, Arundhati Roy sceglie Londra, e a Londra la Union Chapel, chiesa, spazio per concerti, ricovero di homeless ed emarginati.
Sale sul palco vestita di bianco, sottile, una figura scarna, delicata. La voce trema mentre inizia la lettura dei primi capitoli, ma poi si distende, si immerge nel piacere profondo di un linguaggio che è la sua vera autobiografia: “Uno scrittore passa tutta la vita a colmare la distanza fra la lingua e il pensiero. Quando riesce a farlo, non c’è niente di meglio di questo. La lingua è la pelle del mio pensiero”.
La narrativa, dice, è tornare a casa dopo anni di saggistica. Ma la sua casa è l’India, che non ha mai voluto lasciare, nemmeno dopo il successo clamoroso, frastornante, inatteso del Dio delle Piccole cose, nel 1997. “Ero sulla copertina di tutte le riviste. Quando il partito nazionalista indiano (Bjp) vinse le elezioni e lanciò i test nucleari, nel 1998, semplicemente non potevo tacere”. E il libro è un ritratto dell’India contemporanea. Ne conosco la genesi, perché fu Roy a rivelarmela, nel luglio 2007, al tavolo da pranzo del suo appartamento di Delhi. Per 10 anni, sfruttan- do il successo de Il Dio delle piccole cose, aveva soprattutto denunciato; al fianco dei no global e contro il nucleare; dalla parte delle vittime di Bhopal, dei guerrieri maoisti in lotta contro l’esproprio di terre imposto dalle multinazionali straniere, ai sit in contro la violenza in Kashmir.
AVEVA SCRITTO centinaia di articoli, raccolti poi in 18 libri, per comprare tempo, lanciare campagne, suscitare indignazione, ottenere l’attenzione dell’Occidente, La “voce dei senza voce” veniva definita. “Mi fa diventare matta. Loro hanno una voce. È solo che viene ignorata”. E lei, invece, veniva ascoltata, pubblicata, invitata, fino a diventarne prigioniera.
“Ormai sono Arundhati l’attivista, la targhetta necessaria per completare il panel nei festival letterari. Ma io non sono un’attivista. Gli attivisti non si stancano mai: io invece sono esausta”.
Il Ministro della Suprema Felicità è l’esito di un’estrema ambizione artistica: ricreare una realtà più complessa della sua descrizione. Racconta l’incontro di due donne: l’e rm a f r o di t a Anjum e l’attivista politica e artista Tilottama, alter ego di Roy. Sono donne in lotta con la propria identità, sullo sfondo di un’India stravolta dalla violenza dell’estremismo indù, dalle prevaricazioni dei seguaci di un personaggio in cui è facile riconoscere il premier Narendra Modi, dall’umanità straziata e vitale del conflitto in Kashmir. Attorno alle protagoniste, una comunità di emarginati, fuoricasta, attivisti, balordi.
“Definiscono il mio stile ‘realismo magico’. Non so cosa significhi: io racconto la realtà attorno a me. Questo è un libro sui confini. Ogni personaggio ha un confine che lo attraversa ed è schiacciato da un meccanismo più grande. È la società indiana a essere edificata sui confini: il sistema delle caste, che è il motore dell’India moderna, preclude ogni solidarietà, opprime chiunque semplicemente ch iud endo lo nei limiti della sua casta. Se non si capisce ciò non si capisce nulla…”.
La sua opposizione pubblica al nazionalismo indù le è costata il coinvolgimento in processi infiniti e minacce di morte, tanto da costringerla a riparare a Londra per finire questo romanzo. “Non voglio enfatizzare i miei rischi personali - minimizza - chiunque alzi la voce contro questo regime è a rischio. Io sono contemporaneamente esposta e protetta dalla mia fa- ma: le donne del Kashmir non vengono solo uccise, ma torturate e mutilate per aver protestato. Mi hanno chiesto un paragone fra Trump e Modi. Credo che Modi sia molto peggio. Il suo nazionalismo ha svuotato le istituzioni dall’interno. L’India è uno stato indù: per la conferma ufficiale manca solo la modifica costituzionale. Il clima è terribile: c’è un terrorismo intellettuale che colpisce qualunque oppositore e uccide più delle armi. E la situazione è molto pericolosa per la comunità musulmana. Non trovo parole di conforto. La mia unica speranza è che la gente si renda conto che se questo regime si prende tutto non rimarrà davvero niente”.
E questo come può essere compatibile con un’India moderna? “È estremamente compatibile, perché l’I n di a moderna non conosce solidarietà. È un paese di conflitti, speculazioni, consumismo, oppressione, drogato dalle illusioni del consumismo e della globalizzazione. Ma - si addolcisce - vedo ovunque, anche nella disperazione, sacche di gioia, luoghi di creatività, comunità vive. Vedo poesia”.
Mi definiscono la ‘voce dei senza voce’: mi fa diventare matta. Tutti hanno una voce. È solo che viene ignorata Chi è Arundhati Roy è nata a Shillong (India) il 24 novembre del 1961
La carriera Iniziato nel 1992, “Il dio delle piccole cose” viene completato nel 1996 e pubblicato nel 1997, ricevendo un consenso mondiale. La Roy diviene icona dell’attivismo politico e sociale per molti temi globale, dall’ambiente ai diritti umani