Il paradiso perduto, le Maldive e i martiri delle guerre sante
ell’aria pigra del primo pomeriggio, due amiche chiacchierano su un dondolo giallo. Un uomo, poco lontano, rivernicia una chiglia di barca, scalzo nella sabbia chiara. Si avvicina, gentile, mi dice: “Benvenuta a Himandhoo”. E mi offre un mango. Di là dalle palme, trasparente, si schiude il mare delle Maldive, calmo e sconfinato.
È strano pensare che qui abiti uno come il padre di Hassan Shifazee, ucciso al fronte in Siria. Ai giornalisti ha detto solo: “Sono orgoglioso di mio figlio”. Qui l’estate scorsa mentre il mondo guardava le Olimpiadi di Rio, tutti guardavano la battaglia di Aleppo. E tifavano Al Qaeda.
Le Maldive sono il Paese non arabo con il più alto numero pro capite di foreign fi
ghters . Le stime, come sempre, sono difficili, ma per la sola Siria sono partiti circa 200 combattenti. Su un totale di 350 mila abitanti. Più i tanti partiti per gli altri jihad del mondo. Sull’albero più alto di Himandhoo c’è ancora un ramo che non è un ramo, in realtà, è un’asta: l’asta da cui sventolava una bandiera nera. Fino a pochi anni fa, quest’isola era un emirato di al Qaeda.
Per noi le Maldive sono sinonimo di paradiso. Ma in realtà, questo arcipelago di 1192 isole è uno dei luoghi più ostici del pianeta: non c’è neppure una sorgente d’acqua. Le Maldive sono diventate un’icona del lusso negli anni Settanta, con Gayoom, il presidente che si inventò la formula dei resort. Del tutto incluso. Da allora, dal turismo entrano 3,5 miliardi di dollari l’anno. Ma poco è cambiato. Tutto finisce nelle tasche di cinque, sei affaristi che hanno ottimi amici in Parlamento o sono in Parlamento.
I tre fratelli Jameel sono stati tra i primi a trasferirsi nel Califfato. Insieme a mogli e figli. Il maggiore, Aatifu, lavorava all’ufficio immigrazione, quello di mezzo, Samihu, era un pescatore, mentre il più piccolo, Aataru, era disoccupato. Quando gli hanno chiesto perché fossero andati a Raqqa, il padre, laconico, ha risposto: “Si erano sposati, avevano ognuno la propria fa- miglia. Ma vivevano ancora tutti in un’unica stanza”.
Sulle isole, il 40% della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà.
In realtà l’unica, se hai vent'anni, è trasferirti a Male. La Capitale. Tutto è concentrato nei suoi 5,8 chilometri quadrati: gli uffici, gli ospedali, i negozi, le scuole. Con il risultato che Male è una delle città più sovraffollate del pianeta. Molti, moltissimi, quasi tutti vivono pressati in queste case minuscole e scalcinate, buie, umide, sature di caldo e sudore, in 10 in due stanze. O meglio, vivono per strada, perché in spazi così ristretti, le famiglie sono uno scontro continuo. Inoltre le Maldive sono il Paese con il più alto tasso di divorzi al mondo. E dal momento che l’Islam proibisce l’alcol, sono anche il Paese con uno dei più alti tassi di eroinomani: il 44% degli abitanti ne ha uno in casa. “Perché se non puoi cambiare la tua vita – mi dice un ragazzo – non ti resta che provare a dimenticarla”.
Ha 31 anni, si chiama Kinan. Ed è uno dei nomi più noti, e temuti, della criminalità di Male. Il principale datore di lavoro delle Maldive. Perché nei resort, in realtà, sono tutti stranieri, non solo i clienti. “I camerieri, i cuochi, ormai vengono tutti dal Bangladesh, sono tutti immigrati disposti a farsi trattare come schiavi”, dice. “Mentre per le mansioni superiori, quelle a contatto con i turisti, vogliono solo occidentali. Solo bianchi”.
E QUINDI MALE È SPARTITA
tra una trentina di gang: ognuna legata a un certo deputato, a sua volta legato a un certo imprenditore. “Siamo al loro servizio. Per qualsiasi cosa, un volantinaggio come un'aggressione”, dice. “Con tanto di tariffario. 1.200 dollari per spaccare una vetrina. 600 per bruciare un’auto”.
Più che le Maldive, Male sembra il Salvador. Il Messico. Il 43% degli abitanti ammette di non sentirsi sicuro neppure in casa propria.
Per quelli come Kinan, la Siria è una specie di seconda opportunità. Una forma di redenzione. “Qui accoltelli fino a quando non vieni accoltellato”, dice. “Nient'altro. E per una guerra che non è la tua. In Siria, se non altro, sarei ucciso per una ragione migliore”.
Mohamed ha 20 anni e studia alla facoltà di Sharia. Sta preparando un esame e la partenza per la Siria. “L’Islam è giustizia – dice –. Giustizia come è intesa ovunque. Come uguaglianza di diritti e di opportunità”.
LE MALDIVE potrebbero essere come Dubai, dice. Come la Svizzera. “E invece qui è tutto un favore. Se ti ammali, bussi alla porta del presidente e ti pagano le cure all'estero. Che poi è il motivo per cui nessuno si ribella. Perché ognuno ri-
IL RAGAZZO DA ALEPPO
La sicurezza non viene dalle armi, viene dalla giustizia. Oggi nel mondo una minoranza della popolazione possiede tutto. Avessimo i droni staremmo anche noi ad abbattervi col telecomando. Voi volete liberare noi. E noi vogliamo liberare voi
Alle Maldive Invece di guardare le gare sportive tutti seguivano la battaglia di Aleppo, dove erano impegnati i miliziani del gruppo fondato da Bin Laden
solve i suoi problemi così. Pensando solo a se stesso”, dice. “Non siamo cittadini. Siamo mendicanti”.
Il suo modello, dopo Maometto, è Malcolm X.
I centri di reclutamento non sono solo le moschee. C'è il carcere. C’è Internet. “Ma soprattutto, il centro di reclutamento siete voi – dice Ahmed Nazeer, uno degli attivisti più noti –. Tutti si chiedono perché i jihadisti non siano bloccati in aeroporto. Ma il governo un po’ cerca di liberarsi di gang che ormai conoscono troppi suoi segreti, troppi suoi crimini, un po’, semplicemente, condivide certe idee. Come tutti, d’altra parte. Perché magari ti dicono che quel jihadista era un alcolizzato, quell'altro un depresso. Ma qui nessuno contesta l'ideologia di fondo. Nessuno ha voglia di accettare questo mondo. Questa vita. La verità – prosegue – è che non fermerai mai i jihadisti, se non hai un’alternativa da offrirgli”.
I jihadisti predicano il ritorno al vero Islam. All’Islam dei tempi di Maometto. Ma ai tempi di Maometto le Maldive, in realtà, erano buddhiste. Qui tutto è iniziato con Gayoom, il presidente dei resort. Che ha governato dal 1978 al 2008, e in un certo senso, governa ancora oggi: l’attuale presidente è suo fratello.
Si era laureato al Cairo, ad al-Azhar, il principale centro di studio del mondo islamico: e non avendo legittimazione popolare, si costruì una legittimazione religiosa. Gayoom giustificava ogni decisione come una decisione dettata dal Corano. E i suoi oppositori, così, finirono per giustificare ogni critica allo stesso modo. Perché gli anni Settanta furono anche gli anni della Guerra dei Sei giorni e dell’occupazione della Palestina, vista dagli arabi come prova del fallimento del nazionalismo laico di Nasser, e soprattutto, furono gli anni dei petrodollari e con i petrodollari, dell’ascesa d el l’Arabia Saudita. E a un certo punto, molti dei ragazzi che erano andati a studiare all’estero, con i suoi finanziamenti, rientrarono alle Maldive, privando Gayoom del suo monopolio sull’Islam.
“FINIRONO IN CARCERE, uno a uno – racconta Kyle, che gestisce la sola guest house di Himandhoo - Furono torturati. Spesso uccisi. E diventarono degli eroi. Perché per voi gli islamisti sono un simbolo di oppressione, ma qui, e non so- lo qui, gli islamisti per tanti anni sono stati l’opposto: il simbolo della resistenza all’oppressione. Qui nessuno è costretto a niente. Chi rispetta la sharia, crede nella sharia”. Persino lo tsunami, nel 2004, è stato interpretato come una punizione di Dio.
E dopo lo tsunami molto, naturalmente, è stato ricostruito dall’Arabia Saudita. A cominciare dalle scuole, in cui l’Islam è ora la materia principale.
I turisti non notano niente di tutto questo, perché i resort occupano ognuno un’intera isola. Sono separati dal resto del Paese.
In aeroporto, la sala arrivi è in realtà un’altra sala partenze: si atterra, e subito ci si imbarca di nuovo. Ma a Male, intanto, tutto quello che a noi è consentito, ai locali è vietato. L’alcol. I bikini. O il sesso fuori dal matrimonio: sono cento frustate. La sharia, qui, è rigorosa. Solo i musulmani possono essere cittadini. È proibito avere un’altra religione, o non avere religione. E la Costituzione tutela la libertà di espressione, sì, ma solo compatibilmente con i principi dell’Islam.
Solo quattro giornalisti si sono dichiarati laici. Il primo è stato aggredito, e quasi decapitato, e si è rifugiato all’estero. Il secondo è sparito. Il terzo è stato ucciso. Il quarto vive nascosto, assediato dalle minacce.
Ma per le autorità tutto questo non esiste. Alla notizia dei primi due maldiviani uccisi in Siria, nel 2014, il presidente Yameen ha declinato ogni responsabilità. “Abbiamo sempre invitato i connazionali all’estero a comportarsi bene”, ha detto.
A Himandhoo tutte le donne sono in niqab. Completamente coperte, completamente in nero. Sembra l’Arabia Saudita. Non è vietato solo l’alcol, qui: è vietata anche la musica. Per via, come sempre, del ritorno alle tradizioni, anche se sulla banconota da 5 r u
fiyaa, la moneta locale, c’è un tamburo. Lo strumento tipico delle Maldive.
Ma al Qaeda non solo ha un largo consenso, non è mai realmente, integralmente contestata da chi invece non è dalla sua parte. Neppure dai ragazzi del Chucks Café, che avrebbero voluto uno stereo. E con cui parlo mezza nascosta, perché non potremmo chiacchierare: non siamo sposati. “Non condivido niente di al Qaeda – mi dice uno di loro –, ma offre soluzioni sbagliate a problemi giusti. Problemi veri. Per questo sono così forti”. “Non guardare alle risposte dei jihadisti. Guarda alle domande. Perché sono le domande di tanti, qui. Di tutti”.
ARRUOLARSI, QUI, è normale. Si va in Siria come altrove si va in Erasmus. E non è un segreto. I jhadisti delle Maldive hanno un nome, Bilad al
Sham, una pagina Facebook. Hanno un canale Youtube.
La sera, Himandhoo è come ogni altra isola, bellissima, in questa sua aria come d’argento: perché le case sono sotto la coltre del verde, degli alberi, e non vedi finestre, non vedi lampade accese: solo il chiaro- re delle stelle riflesso sulle parabole satellitari. Sono tutti su Skype: collegati con figli, fratelli, amici. Con i jihaddi mezzo mondo. Per noi il Califfato è agli sgoccioli, ma qui si continua a partire come sempre. Non c’è aria di disfatta. Anzi. “L’11 settembre costò 500 mila dollari. Parigi, Bruxelles, sono costate pochi proiettili”, mi dice un ragazzo da Aleppo. “La sicurezza non viene dalle armi, è inutile – afferma –. Viene dalla giustizia”.
“Oggi nel mondo una minoranza della popolazione possiede tutto. Quanto sarà? Il 10%?”, dice. “E però voi non è che pensate che il mondo, così, non può funzionare: pensate che volete essere in quel 10%. Poi dici a me violento. Non siamo mica più brutali di altri”, dice. “Per niente. Avessimo i droni, staremmo anche noi ad abbattervi con il telecomando. Senza mezzo schizzo di sangue”. Siamo uguali, dice.
Ma proprio uguali.
“In fondo, voi volete liberare noi. E noi vogliamo liberare voi”.
Record Dall’arcipelago sono partiti per la Siria circa 200 combattenti. È il Paese non arabo con il più alto numero pro capite di foreign fighters