“Siamo il laboratorio di un Paese degenerato”
Dieci candidati a sindaco, 1135 aspiranti consiglieri comunali. Partiti spaccati. C’è il Pd, ma anche la sinistra-sinistra, gli ambientalisti con più facce, i Cinque Stelle con i mal di pancia, la destra di Fitto e l’estrema destra di G ian car lo Cito. L’ex mazziere televisivo non può più candidarsi, lo condannarono per concorso esterno in associazione mafiosa e si fece pure la galera: al suo posto il figlio Mario. Giovane e fermo nei principi: “Votatemi, tanto il sindaco lo farà papà”. Sullo sfondo il disastro dell’Ilva, la più grande acciaieria d’Europa, i suoi veleni, la sua vendita e soprattutto gli esuberi. Un massacro sociale, la Caporetto del lavoro, con migliaia di operai pronti a essere espulsi. Alessandro Leogrande, scrittore con sangue tarantino nelle vene, osserva lo scenario con disincanto. “Dove c’è una frammentazione così alta, non c’è più consenso, non c’è rappresentanza né legittimazione della rappresentanza”.
Vediamola come una grande volontà di partecipazione. Magari! Queste elezioni sono una sorta di grande concorso pubblico dove non si richiedono requisiti particolari. Oltre mille candidati per 32 posti di consigliere comunale in una città di 200mila abitanti, bastano un po’ di parenti e amici per racimolare i voti per essere eletti. Il dramma vero è che la città non ha mai fatto i conti col passato.
Quale?
Il fatto di essere una sorta di laboratorio della degenerazione politica del Paese. Taranto è la prima città che negli anni Novanta del secolo passato elegge un personaggio televisivo a sindaco.
Sta parlando di Giancarlo Cito.
Certo. Un precursore, a suo modo. Un ex picchiatore fascista che inventa il talk televisivo rabbioso, manganello mediatico. Rastrella voti nei quartieri del sottoproletariato e in quella classe operaia che prima dava il 40% dei voti al Partito comunista. Fa l’uomo d’ordine e piace alla piccola borghesia, ma anche l’alta borghesia lo coccola pensando agli affari. Con questo passato i tarantini non hanno fatto i conti e oggi Cito r ischia di arriva- re al ballottaggio.
Dopo Cito il sindaco di Forza Italia.
La Di Bello e la sua giunta del più grande crac finanziario che si ricordi. Ci sono queste due fonti di macerie alla base di quello che è stato l’ultimo decennio amministrativo di Ippazio Stefàno e della sinistra al potere.
Faccia un bilancio di questi anni.
Si sono dimostrati incapaci di traghettare la città. Di capire cosa farne dopo il disastro dell’acciaio. Taranto è di fatto commissariata, penso all’Ilva e al fatto che è stata trovata la soluzione peggiore: continuare con lo stesso modello produttivo ma ta-
gliando migliaia di posti di lavoro. Un capolavoro di disastro sociale.
Di questa tragedia non c’è traccia nella campagna elettorale. Perché il silenzio conviene. A poche ore dal voto parlare di migliaia di posti di lavoro che salteranno è gi u d i c a t o co n t r o p r o d u c e nte. La politica tarantina è miope, incapace di progettare un’altra città, ininfluente nel dibattito politico nazionale.
E la borghesia cittadina? Per carità! Ha drammaticamente ragione il mio amico Giancarlo De Cataldo quando afferma che a Taranto c’è la borghesia più degenerata d’Italia.
Parliamo della politica nazionale sull’Ilva.
C’è il vuoto. Renzi ha fatto delle cose, ma poi, quando ha visto che l’impresa era ardua, ha lasciato perdere. Fa sempre così, è incapace di attivare un discorso sul Mezzogiorno. Grillo arriva a Taranto a pochi giorni dal voto, lo portano a vedere i parchi minerari e si indigna. L’Ilva va chiusa, dice, è archeologia industriale. Ma da un leader politico di una forza così im- portante io mi aspetto altro, conoscenza, consapevolezza, capacità progettuale”. Come sempre accade nel Sud, quando la crisi è forte, arrivano quelli che invocano la Magna Grecia.
La Taranto di oggi è il fallimento delle politiche industrialiste del Novecento, da questo nasce il bisogno di guardare al passato. Capisco il meccanismo psicologico, ma questa voglia di ritorno alle radici produce fantasmi, andrebbe governata meglio”.
E invece?
La politica alimenta il mito di Sparta. Si propone Taranto capitale della cultura, ci si richiama all’idea, esistita forse nel 1600, della città cozze e mare. L’alternativa all’a cciaio non è la turistizzazione delle pietre antiche, questa è una boiata buona per i comizi. La stessa ricerca di una identità spartana è un’idea onirica, fumettistica, che rimanda più che a ricerche storiche serie, al film “300”. E invece Taranto è stata sempre una città al centro del Mediterraneo qui è passato tutto e il suo contrario, una città “p ut ta n a”, come Napoli, aperta a tutto.
Lei ha scritto libri e saggi anche sulla sua città. Qualcuno ha gradito, altri no. Qual è il suo rapporto con Taranto?
C’è chi mi odia, la borghesia, parte di quelli che nel 2012 assaltarono il palco della Fiom con Landini, i lottatori del web. E chi mi vuole bene, quelle persone progressiste che in questi anni complicati hanno continuato a muoversi nei quartieri e nelle associazioni. Urlano poco e non smettono di ragionare. Come vede sono in buona compagnia.
Queste elezioni sono una sorta di grande concorso pubblico dove non si richiedono requisiti particolari La politica tarantina è miope, incapace di progettare un’altra città, ininfluente nel dibattito politico nazionale MASSIMA FRAMMENTAZIONE Abbiamo 10 candidati a sindaco, 1.135 a consigliere e nessuno di loro che parli dei licenziamenti all’Ilva