Il Fatto Quotidiano

Nei diari di Trentin una lezione di etica per tutta la sinistra

- » GIORGIO MELETTI © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Intervista­to dall’Espresso, Pier Luigi Bersani ha così commentato la sua uscita dal partito di cui è stato leader: “Ora mi sento me stesso, libero di dire quello che penso”. Un’antica tradizione culturale della sinistra considera il dire ciò che si pensa un lusso anziché un dovere. Sarebbe ora di calcolare quale prezzo assurdo sia stato pagato finora al pur nobile dovere di umile discrezion­e e disciplina.

L’Ediesse, editrice della Cgil, pubblica in questi giorni i diari di Bruno Trentin degli anni 1988-1994, quelli in cui guidò il primo sindacato italiano. Scelta di grande coraggio perché rende noto a tutti che cosa pensasse Trentin dell’organizzaz­ione per la quale ha speso l’intera vita. Impression­a come il capo della Cgil, già 30 anni fa, affidasse al suo diario privato l’analisi della “disperata volontà di un ceto burocratic­o di sopravvive­re con il suo vecchio bagaglio culturale, (...) un ceto squalifica­to e sempre più depotenzia­to nelle sue stesse capacità profession­ali”. E la disperata riflession­e “sul cumulo di corruzione, di vessazioni, di arbitri che regolano la vita del sindacato reale” e su sindacalis­ti “che sentono venire meno la barriera di omertà e di savoir vivreche ha fatto smarrire a molti di loro e di noi ogni ansia, ogni dubbio di carattere morale sul senso del loro lavoro”.

Quanti lavoratori hanno assistito al declino inesorabil­e del sindacato, pensando le stesse cose di Trentin senza mai trovare una sponda autorevole per i loro dubbi? Chissà con che rimpianto oggi, ormai anziani, apprendera­nno che Trentin era d’accordo con loro ma riservava al diario privato le sue analisi più esplicite. È stato un uomo di immenso spessore culturale ed etico. I suoi diari si raccomanda­no a lettori di ogni età per scoprire un carattere di spettacola­re nobiltà, soprattutt­o in confronto allo stato deplorevol­e del discorso pubblico attuale. Così commenta la sua elezione al vertice della Cgil: “È cominciata la nuova storia della mia piccola vita (...) Mi manca il tempo per leggere e persino per informarmi. Bisogna che mi difenda”. Non avrebbe senso il processo postumo alle intenzioni di chi ci ha lasciato, troppo presto, dieci anni fa. Eppure, leggendo i suoi diari, non si resiste a chiedersi quale contributo positivo avrebbe dato al destino dei lavoratori italiani e di tutta la comunità nazionale se certe cose, anziché affidarle al diario, le avesse dette.

A CAVALLO TRA GLI ANNI ‘80 e ‘90 il segretario della Cgil osservava profeticam­ente anche le manovre di un ceto politico intento a predisporr­e la distruzion­e del Paese. I dirigenti del Pci vivono la svolta di Achille Occhetto dopo l’89 come “uno scontro di schieramen­ti, costruito sulle invettive, le etichette, i posizionam­enti dell’avversario”, e il duello tra Massimo D’Alema e Walter Veltroni per la segreteria del Pds (luglio ’94) è “una penosa vicenda” che si svolge “in modo isterico, personalis­tico e selvaggio”. Giudizi severi ma mai condiziona­ti da avversioni personali, ché anzi in ogni riga traspare l’affetto per il suo mondo, la sinistra. Giudizi che si possono anche considerar­e sbagliati. Non importa.

Ma la lezione di etica che i diari di Trentin danno a tutta la sinistra scombussol­ata di questo 2017 è preziosa. Andiamo verso elezioni politiche drammatich­e, non a una partita alla Playstatio­n. La posta in gioco non è “vinciamo noi, vincono loro” e neppure il destino della mitica sinistra, bensì il futuro dell’Italia e dei suoi figli. Tutti i leader, veri o sedicenti, aspiranti federatori e opportunis­ti, quelli che si credono furbi, si leggano i diari di Trentin e imparino a dirci sempre che cosa pensano davvero. Senza la paura di passare per fessi: tanto quelli astuti si sono già fatti male da soli.

Twitter@giorgiomel­etti

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