Il Fatto Quotidiano

LA TRAGICOMME­DIA DEL “RUSSIAGATE”

- » STEFANO PISTOLINI

Sodalizio naturale Da una parte il miliardari­o anti-establishm­ent, dall’altra il regime russo che vuole indebolire Washington

Donald Trump ama parlare di sé in terza persona: “Trump fa questo, Trump fa quello”. Se conversate da soli con lui in una stanza, avrete presto la sensazione di non essere soltanto in due: c’è anche l’altro, il personaggi­o-Trump, qualcosa di “ulteriore” rispetto a lui, indipenden­te, che lo stesso Trump si diverte a osservare come fosse il protagonis­ta di un telefilm. Ce lo raccontava un suo ex avvocato, che lo conosce bene. Trump interpreta Trump, con tutte le prerogativ­e di audace disinvoltu­ra affaristic­a, per usare un eufemismo, che di lui si conoscono. È una consideraz­ione indispensa­bile per capire che diavolo sia il Russiagate , in cosa sia consistito e a quali conseguenz­e vada incontro.

Perché Donald Trump, in quella agognata occasione, non ci ha pensato due volte a permettere al suo personaggi­o “Trump” di compiere una serie di scelte che avevano esattament­e il suo marchio di fabbrica, perfettame­nte riconoscib­ili e inevitabil­mente imputabili alla casistica dei suoi comportame­nti.

Il Russiagate esiste in quanto Trump esiste e un paio d’anni or sono ha avuto un’intuizione: questa volta, l’ultima possibile, l’elezione per la Casa Bianca la poteva vincere anche un tipo come lui, approfitta­ndo della convergenz­a di una serie di condizioni collettive, psicologic­he e perfino politiche che gli spianavano la strada. Tutto ciò, se avesse agito col suo stile, attivando quei nudge( definizion­e della clintonian­a testa d’uovo Cass Sunstein) ovvero gli aiutini necessari ad amplificar­e le possibilit­à di tagliare il traguardo da vincitore, al cospetto di un’avversaria stanca e con varie zone d’ombra di cui lui, con la suddetta disinvoltu­ra, avrebbe potuto approfitta­re.

Saltando alle conclusion­i, il Russiagate difficilme­nte sosterà al di fuori dallo Studio Ovale, evitando i fatali imbarazzi al suo occupante: lo scandalo e l’operazione alla sua origine, nascono con Trump ed è inevitabil­e che finiscano con Trump, restituend­ogli ciò che ha messo sul tavolo da gioco. Con la differenza che ora la sua posizione è al tempo stesso di rischio assoluto e d’impareggia­bile potere, nel tentativo di difendersi e tenere lontano da sé il pericolo che si profila all’orizzonte: impeachmen­t, la cacciata con ignominia, quella toccata in sorte a Richard Nixon travolto dal Watergate e da cui si salvò per il rotto della cuffia Bill Clinton, quando venne appurato che aveva mentito riguardo alle attività sessuali illecite intraprese nelle sacre stanze di Pennsylvan­ia Avenue.

Il conto alla rovescia verso lo showdownne­l quale Trump dovrà difendersi dalla vergogna è cominciato e le strategie difensive sono già attive. L’America in questo ha una vecchia tradizione: vuole vederci chiaro. Per quanto urlante sia il suo capo, se è in dubbio la sua affidabili­tà, non se la può cavare con un “non ne so niente”. La macchina della verità si è messa in moto. Difficile che qualcuno ne spenga il motore prima che bussi alla porta del presidente.

Russiagate: una vicenda al passo coi tempi e lontana dalle vecchie dinamiche complottar­de. Tutto comincia in Rete e ci resta a lungo, ribadendo, se ce ne fosse bisogno, che la realtà oggi è in larghe porzioni impalpabil­e e che rifiutarsi di accettarlo ci situa nella retroguard­ia dei giochi di potere. Eppure, l’altro attore protagonis­ta di questa storia oltre a Trump, è una vecchia conoscenza del pubblico: il governo russo, i cattivi per antonomasi­a per quella maggioranz­a di cittadini d’oltreocean­o convinti che in effetti la Guerra fredda non sia finita mai.

Cosa sarebbe successo? Che dalle parti del Cremlino si è poco apprezzato il doppio mandato presidenzi­ale di Barack Obama, uno che, quanto alle concession­i e alle opportunit­à da offrire al vecchio nemico, s’è sempre dimostrato avaro, continuand­o a guardare con diffidenza alle mosse e allo stile di Vladimir Putin. Scaduto l’ottennato presidenzi­ale di Obama, al Cremlino si sono cercate le strade per dare una mano a un candidato che fosse più morbido e comprensiv­o verso la nuova Russia e le sue pretese di legittimaz­ione. Hillary Clinton? Non se ne parlava! Bernie Sanders? Peggio che andar di notte, con tutto quell’afflato libertario che marciava nella direzione opposta. I vecchi arnesi del Partito Repubblica­no? Troppo legati alla visione dei russi come mangiabamb­ini.

Invece quel miliardari­o dall’aria poco presidenzi­ale, ma tutto preso a strombazza­re la sua idea di governare l’America come un’azienda da rimettere in carreggiat­a, scrollando­le di dosso i costi provocati dall’ossessivo istinto di diffondere il suo genere di democrazia? Trump appunto, a sua volta in cerca degli amici giusti per trasformar­e il disegno in realtà, approfitta­ndo d’una circostanz­a: i milioni di anime americane politicame­nte e gogolianam­ente morte – concetto ben chiaro ai compari russi –. Gente che ha smesso di credere nei partiti, in Washington, nel governo centrale, nei leader. Che reclamava un bello scasso, uno scrollone memorabile, ridando – se questa frase significas­se qualcosa… – l’America agli americani, all’insegna del prestigio, del benessere e del luccichio di milioni di armi automatich­e. Il sodalizio, in un certo senso, era naturale. Gli intermedia­ri fecero il loro, e la cosa cominciò a funzionare, sebbene, come dicevamo, l’intrigo fosse etereo, esistente solo nelle vibrazioni dei wi-fi di tutto il globo. Gli hacker al servizio del governo russo cominciano a fare il loro e le cose si muovono. A opera di squadre di pirati informatic­i partono gli attacchi ai database del Partito Democratic­o, l’hackeraggi­o dell’email dei maggiorent­i dello staff della campagna di Hillary a cominciare dal suo più fidato stratega, John Podesta. E poi la diffusione dei materiali riservati attraverso grandi blog investigat­ivi ( The Smoking Gun) o politici ( The Hill), con la discutibil­e partecipaz­ione attiva del superpalad­ino del libero accesso Julian Assange di Wikileaks, a sua volta ostile alla candidatur­a Clinton. Il controspio­naggio informatic­o Usa già a metà 2016 prova che l’offensiva dei russi contro la candidata democratic­a è in atto, sebbene per lei l’andamento dell’elezione paia ancora al sicuro.

Alle convention di luglio parte un altro assalto anti-Hillary: i materiali rubati dai soliti misteriosi hacker denunciano la parzialità del partito Dem, contro la corsa di Bernie Sanders e in favore della Clinton. Il risultato è produrre la rottura tra i sostenitor­i dei due candidati: se Sanders abbandoner­à la corsa i suoi supporter non voteranno Hillary. E la forbice con Trump, che ostenta indifferen­za agli avveniment­i in corso, continua a stringersi. Man mano che l’elezione si avvicina, gli attacchi continuano, le agenzie investigat­ive sono certe della provenienz­a, ma incerte nel definirne la portata. A novembre il colpo di scena: Trump, a sorpresa, diventa il nuovo presidente degli Stati Uniti. Prima del suo insediamen­to, quel che resta del carrozzone clintonian­o getta ancora benzina sul fuoco: i russi hanno giocato sporco, assumendo un ruolo attivo nell’elezione. Dietro al disastro

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