LA TRAGICOMMEDIA DEL “RUSSIAGATE”
Sodalizio naturale Da una parte il miliardario anti-establishment, dall’altra il regime russo che vuole indebolire Washington
Donald Trump ama parlare di sé in terza persona: “Trump fa questo, Trump fa quello”. Se conversate da soli con lui in una stanza, avrete presto la sensazione di non essere soltanto in due: c’è anche l’altro, il personaggio-Trump, qualcosa di “ulteriore” rispetto a lui, indipendente, che lo stesso Trump si diverte a osservare come fosse il protagonista di un telefilm. Ce lo raccontava un suo ex avvocato, che lo conosce bene. Trump interpreta Trump, con tutte le prerogative di audace disinvoltura affaristica, per usare un eufemismo, che di lui si conoscono. È una considerazione indispensabile per capire che diavolo sia il Russiagate , in cosa sia consistito e a quali conseguenze vada incontro.
Perché Donald Trump, in quella agognata occasione, non ci ha pensato due volte a permettere al suo personaggio “Trump” di compiere una serie di scelte che avevano esattamente il suo marchio di fabbrica, perfettamente riconoscibili e inevitabilmente imputabili alla casistica dei suoi comportamenti.
Il Russiagate esiste in quanto Trump esiste e un paio d’anni or sono ha avuto un’intuizione: questa volta, l’ultima possibile, l’elezione per la Casa Bianca la poteva vincere anche un tipo come lui, approfittando della convergenza di una serie di condizioni collettive, psicologiche e perfino politiche che gli spianavano la strada. Tutto ciò, se avesse agito col suo stile, attivando quei nudge( definizione della clintoniana testa d’uovo Cass Sunstein) ovvero gli aiutini necessari ad amplificare le possibilità di tagliare il traguardo da vincitore, al cospetto di un’avversaria stanca e con varie zone d’ombra di cui lui, con la suddetta disinvoltura, avrebbe potuto approfittare.
Saltando alle conclusioni, il Russiagate difficilmente sosterà al di fuori dallo Studio Ovale, evitando i fatali imbarazzi al suo occupante: lo scandalo e l’operazione alla sua origine, nascono con Trump ed è inevitabile che finiscano con Trump, restituendogli ciò che ha messo sul tavolo da gioco. Con la differenza che ora la sua posizione è al tempo stesso di rischio assoluto e d’impareggiabile potere, nel tentativo di difendersi e tenere lontano da sé il pericolo che si profila all’orizzonte: impeachment, la cacciata con ignominia, quella toccata in sorte a Richard Nixon travolto dal Watergate e da cui si salvò per il rotto della cuffia Bill Clinton, quando venne appurato che aveva mentito riguardo alle attività sessuali illecite intraprese nelle sacre stanze di Pennsylvania Avenue.
Il conto alla rovescia verso lo showdownnel quale Trump dovrà difendersi dalla vergogna è cominciato e le strategie difensive sono già attive. L’America in questo ha una vecchia tradizione: vuole vederci chiaro. Per quanto urlante sia il suo capo, se è in dubbio la sua affidabilità, non se la può cavare con un “non ne so niente”. La macchina della verità si è messa in moto. Difficile che qualcuno ne spenga il motore prima che bussi alla porta del presidente.
Russiagate: una vicenda al passo coi tempi e lontana dalle vecchie dinamiche complottarde. Tutto comincia in Rete e ci resta a lungo, ribadendo, se ce ne fosse bisogno, che la realtà oggi è in larghe porzioni impalpabile e che rifiutarsi di accettarlo ci situa nella retroguardia dei giochi di potere. Eppure, l’altro attore protagonista di questa storia oltre a Trump, è una vecchia conoscenza del pubblico: il governo russo, i cattivi per antonomasia per quella maggioranza di cittadini d’oltreoceano convinti che in effetti la Guerra fredda non sia finita mai.
Cosa sarebbe successo? Che dalle parti del Cremlino si è poco apprezzato il doppio mandato presidenziale di Barack Obama, uno che, quanto alle concessioni e alle opportunità da offrire al vecchio nemico, s’è sempre dimostrato avaro, continuando a guardare con diffidenza alle mosse e allo stile di Vladimir Putin. Scaduto l’ottennato presidenziale di Obama, al Cremlino si sono cercate le strade per dare una mano a un candidato che fosse più morbido e comprensivo verso la nuova Russia e le sue pretese di legittimazione. Hillary Clinton? Non se ne parlava! Bernie Sanders? Peggio che andar di notte, con tutto quell’afflato libertario che marciava nella direzione opposta. I vecchi arnesi del Partito Repubblicano? Troppo legati alla visione dei russi come mangiabambini.
Invece quel miliardario dall’aria poco presidenziale, ma tutto preso a strombazzare la sua idea di governare l’America come un’azienda da rimettere in carreggiata, scrollandole di dosso i costi provocati dall’ossessivo istinto di diffondere il suo genere di democrazia? Trump appunto, a sua volta in cerca degli amici giusti per trasformare il disegno in realtà, approfittando d’una circostanza: i milioni di anime americane politicamente e gogolianamente morte – concetto ben chiaro ai compari russi –. Gente che ha smesso di credere nei partiti, in Washington, nel governo centrale, nei leader. Che reclamava un bello scasso, uno scrollone memorabile, ridando – se questa frase significasse qualcosa… – l’America agli americani, all’insegna del prestigio, del benessere e del luccichio di milioni di armi automatiche. Il sodalizio, in un certo senso, era naturale. Gli intermediari fecero il loro, e la cosa cominciò a funzionare, sebbene, come dicevamo, l’intrigo fosse etereo, esistente solo nelle vibrazioni dei wi-fi di tutto il globo. Gli hacker al servizio del governo russo cominciano a fare il loro e le cose si muovono. A opera di squadre di pirati informatici partono gli attacchi ai database del Partito Democratico, l’hackeraggio dell’email dei maggiorenti dello staff della campagna di Hillary a cominciare dal suo più fidato stratega, John Podesta. E poi la diffusione dei materiali riservati attraverso grandi blog investigativi ( The Smoking Gun) o politici ( The Hill), con la discutibile partecipazione attiva del superpaladino del libero accesso Julian Assange di Wikileaks, a sua volta ostile alla candidatura Clinton. Il controspionaggio informatico Usa già a metà 2016 prova che l’offensiva dei russi contro la candidata democratica è in atto, sebbene per lei l’andamento dell’elezione paia ancora al sicuro.
Alle convention di luglio parte un altro assalto anti-Hillary: i materiali rubati dai soliti misteriosi hacker denunciano la parzialità del partito Dem, contro la corsa di Bernie Sanders e in favore della Clinton. Il risultato è produrre la rottura tra i sostenitori dei due candidati: se Sanders abbandonerà la corsa i suoi supporter non voteranno Hillary. E la forbice con Trump, che ostenta indifferenza agli avvenimenti in corso, continua a stringersi. Man mano che l’elezione si avvicina, gli attacchi continuano, le agenzie investigative sono certe della provenienza, ma incerte nel definirne la portata. A novembre il colpo di scena: Trump, a sorpresa, diventa il nuovo presidente degli Stati Uniti. Prima del suo insediamento, quel che resta del carrozzone clintoniano getta ancora benzina sul fuoco: i russi hanno giocato sporco, assumendo un ruolo attivo nell’elezione. Dietro al disastro