Rosselli il liberal-marxista e l’errore di Bobbio e Scalfari
Ottant’anni fa, il 9 giugno 1937 in Francia, i fascisti assassinarono i due fratelli di Giustizia e Libertà: il libro di Gaetano Pecora scandaglia la parabola dell’autore di “Socialismo liberale”, fino alla svolta comunista
Ottant’anni sono un tempo più che congruo per un bilancio completo, e non parziale da storico militante o peggio ancora da giornalista o politico, dell’opera di Carlo Rosselli, che a soli trent’anni nel 1929 scrisse il decisivo Socialismo liberale e fondò Giustizia e Libertà, pilastro di quella Concentrazione antifascista che poi fu sciolta nel 1934 anche per le divisioni e le gelosie del vario universo del “fuoriuscitismo” italiano a Parigi.
OTTANT’ANNI, dunque. Tanti ne sono trascorsi da quando infami sicari fascisti uccisero il 9 giugno 1937 i fratelli Carlo e Nello Rosselli in Francia. Da allora il loro martirio è stato spesso trasfigurato in un santino buono per tutte le stagioni. Càpita. Soprattutto nel nostro Paese. La conferma arriva anche dalle scontate celebrazioni di questi giorni, guidate da esponenti di un’élite autoreferenziale che al solito si ferma al 1929 e alle intuizioni di Socialismo liberale, ossia sull’impervio scoglio, spesso privo di appigli, che mette insieme le libertà del metodo liberale con la bandiera dell’uguaglianza socialista. Un problema, peraltro, più che attuale dopo il roboante e fatidico ventennio del riformismo della Terza Via, una sinistra che fa la destra e si fa ancilla del mercato più che dell’uguaglianza. Il risultato è sotto gli occhi: populismi che catturano rabbia e vendetta contro la crisi e ritorno in grande stile del rosso antico alla Corbyn, Mélenchon e Sanders. Un rosso antico che contempla di nuovo la parola nazionalizzazione, degradata a parolaccia dai riformisti e che pure Carlo Rosselli – quello ancora socialista e liberale, non marxista – inseriva nel suo schema di pensiero.
Torniamo però al Bilancio critico di un grande italiano qual è stato Carlo Rosselli, sottotitolo dell’accurato e denso lavoro che Gaetano Pecora ha dedicato al fondatore di Giustizia e Libertà. Il problema riguarda lui, Carlo, e il suo progressivo, a tratti inspiegabile, slittamento verso il marxismo e i cascami della rivoluzione russa. Pecora è uno storico senza parrocchie, insegna alla Luiss ed è uno studioso dotato di una prosa originale e vitale. Tra i suoi maestri c’è Norberto Bobbio, ma Pecora non esita a dolersi per il primo errore del grande pensatore torinese: “il rossellismo” rinchiuso “nel giro breve di una sola aspirazione”, quella che va su e giù nel socialismo contro la “gran nemica” della miseria e pone come invalicabile il metodo liberale della democrazia e del parlamentarismo.
Una semplificazione di Rosselli che prima ancora di Bobbio fece Calamandrei e poi ancora tutto quel filone azionista ridotto ormai allo scalfarismo, nel senso di Eugenio che proprio l’altro giorno ha parlato dei fratelli Rosselli per parlare soprattutto di se stesso, compresi i suoi aperitivi a Milano, e fare un minestrone ideologico che va da Giustizia e Libertà e arriva al renzismo del Pd, passando ovviamente per la storia del gruppo Espresso-Repubblica.
Evitando di fare “un ottimo ragioniere degli errori”, Pecora penetra nel tormento intimo di Rosselli, quello dell’anima, e snuda anche un’al tra grossa “svista” di Bobbio. Questo il passaggio chiave: “Non è completamente vero perciò – come vuole Norberto Bobbio – che ‘tutta l’opera di Rosselli, tanto quella precedente quanto quella successiva (a Socialismo liberale) sia dominata da un tesi fondamentale: marxismo e liberalismo sono incompatibili e pertanto inconciliabili’. Verrà giorno che la liberazione dell’uomo – un tempo promossa dai ritrovati della tecnica liberale (necessari anche se non sufficienti) – sarà deposta da Rosselli sulle materne braccia della sapienza marxiana; precisamente quella sapienza su cui prima aveva roteato la sferza delle sue crude riserve e dei suoi aspri giudizi”. Qui è Rodi e qui il salto è impossibile. “Perché Rosselli s’innamorò di Marx”, si chiede Pecora, disamorandosi del metodo liberale?
È UNA PARABOLA che va dal 1929 al 1937, l’anno della sua morte indicato dalla vulgata come quello della sua svolta a sinistra. In realtà, ed è questo un altro dei pregi del volume di Pecora, lo slittamento di Rosselli inizia nel 1932, prosegue nel 1934 e giunge alfine al 1937. Il 1929 di Socialismo liberale, a quel punto, è lontano. Cosa resta, dopo otto anni, di quel suo “pasticcio” come fu definito a suo tempo da tre critici profondamente diversi tra di loro: Benedetto Croce, Togliatti e Gaetano Salvemini (revisore spietato della sua tesi di laurea)? Il Rosselli che si distanzia da se stesso, che tiranneggia se stesso, è evidente nei due differenti giudizi che diede sul fascismo. Scrive nel 1932: “Il fascismo non si esaurisce nella borghesia, nel puro fatto della reazione capitalista. C’è un residuo”. In questo “residuo”, Rosselli fa rientrare: l’abitudine alla violenza e all’autoritarismo nonché la “debolezza del carattere italiano, tradizione di secoli di servilismo, influenza della Chiesa, apatia politica ecc. ecc.”.
Quattro anni dopo, nel 1936, del “residuo” della specificità italiana non c’è più traccia e il fascismo assume una regola universale: “È la forma storica che tende ad assumere la civiltà borghese capitalistica in questa fase di declino”. Un’analisi, questa, che conduce al tremendo quesito finale: l’ormai anti-capitalista Rosselli quale regime prospetta per l’Italia libera dall’antifascismo? La bilancia pende a favore del marxismo ma forse, a salvare Rosselli, c’è pur sempre Croce. Il caro, vecchio don Benedetto (pur con tutte le sue ombre che nel libro di Pecora non sono poche né lievi).
Il fascismo è la forma storica che tende ad assumere la civiltà borghese capitalistica in questa fase di declino