Emozioni prêt-à-porter a bassa fedeltà
Omologazione Le classifiche sono identiche in 150 paesi. Ci sono 40 brani – la maggior parte inglesi e americani – grazie ai quali sopravvive ciò che resta dell’industria musicale
Chi ha guardato i Wind Music
Awards, andati in onda qualche giorno fa su Rai 1, ha realizzato cosa significa fare musica pop oggi in Italia: molti degli artisti presenti sono usciti dai talent Amici e
X Factor. I ragazzini hanno i loro nuovi idoli, da Thomas a Riki, da Rovazzi a Fedez con J-Ax, da Il Pagante a Ghali. Sono loro il pubblico più ambito per riempire i palasport: anche i cosiddetti big fanno a gara per inserire nei loro brani elementi di Edm (la dance più grezza e tamarra) o di hip hop alla moda, da Tiziano Ferro a Jovanotti l’elenco è lungo. Poi ci sono i casi a parte, vedi Vasco Rossi e Renato Zero, capaci entrambi di convogliare diverse generazioni ai loro concerti mantenendo la propria personalità e coerenza stilistica (Vasco ha appena raggiunto il traguardo dei 220.000 biglietti venduti per un solo concerto, il primo luglio a Modena).
I Wind Music Awards, organizzati da una compagnia telefonica e da una grande agenzia di concerti, rispetto al glorioso Festivalbar di Salvetti, hanno smarrito la capacità di dare valore a una canzone pop. Premiare i cosiddetti dischi d’oro e di platino, in un periodo di crisi di vendite è quasi comico: la Fimi, la federazione dell’industria musicale italiana, premia con un disco d’oro 25.000 copie vendute, 50.000 con un disco di platino. In Gran Bretagna l’asticella è 60.000 e 100.000 copie, negli Stati Uniti 500.000 e 1.000.000.
SFERA EBBASTA,
T ho m as , Francesco Gabbani, Riki hanno ottenuto il disco d’oro ma rispetto ai decenni passati il confronto tra il numero di copie vendute di un album di successo (senza scomodare i 110 milioni di Thriller di Michael Jackson a inizio Anni 80) è imbarazzante; oggi non è più possibile neppure per artisti del calibro dei Coldplay.
C’è un momento ben preciso, una fotografia esplicita del cambiamento dell’industria discografica negli ultimi anni. È stata la pubblicazione dell’album degli U2 Songs Of
I nn oc en ce il 9 settembre 2014, in contemporanea alla presentazione dell’iPhone 6 e dell’Apple Watch. L’album è stato distribuito gratuitamente attraverso iTunes anzi “imposto”: chiunque sul proprio pc, iPad, iPhone l’ha trovato tra le sue canzoni preferite senza averlo deliberatamente scelto. È stato il punto di non ritorno, la scon- fitta dell’industria musicale così come l’avevamo conosciuta. Improvvisamente si è realizzato chi davvero gestisce il business, in questo caso la Apple: gli U2 sono stati pagati direttamente dal fornitore dei servizi.
Un boomerang per il leggendario gruppo di Dublino, capace di scatenare miriadi di utenti contro lo scellerato gesto, considerato egocentrico e invasivo senza precedenti. In un mercato sempre più contratto nel quale i supporti fisici (cd, vinile) sono oramai marginali, il timone è passato alle grandi piattaforme digitali, da Google proprietaria di You Tube, a Spotify, Apple e altri ancora.
Lo streaming è diventato il principale sistema di ascolto e incide nella compilazione delle classifiche e nella programmazione radiofonica. Eppure le cifre pagate agli artisti sono ancora oggi risibili, siamo a centesimi di centesimi ad ascolto o visualizzazione. Tutto è cambiato, soprattutto tutto è diventato globale. Oggi le classifiche sono identiche in oltre 150 paesi di cinque continenti. Ci sono 40 brani – la maggior parte inglesi e americani di origine – sui quali ciò che resta dell’industria musicale punta per sopravvivere.
La hit di Rihanna si ascolta in Nuova Zelanda come in Russia, e si restringe il campo degli artisti sperimentali, di nicchia. In Italia si segue l’onda globale, basta analizzare le playlist dei dieci network più importanti per scoprirne il “copia e incolla”, tranne qualche rara eccezione come Radio Deejay, Lifegate, Radio Popolare e Radio Montecarlo, grazie a scelte editoriali personalizzate.
La maggior parte delle canzoni nel mondo si ascolta oggi su You Tube con una qualità audio pessima. Spotify è diventata la piattaforma più attendibile per scoprire le nuove tendenze mentre iTunes resta, per adesso, il detentore del download, musica scaricata e pagata dal consumatore. In un contesto così fragile si è persa quasi del tutto la valenza aggregatrice della musica, il fluido sul quale intere generazioni si sono riconosciute attraverso cantautori e movimenti anti-sistema, basti pensare all’avvento del punk. Tutto è stato inglobato nel sistema, digerito e sputato sino a costruire una vacua pastella di canzo- nette pop del tutto irrilevanti. Oggi ci sarebbe il terreno fertile per un gruppo come i Pink Floyd? Riuscirebbero ad emergere i Queen, i Police, i Clash? Dovrebbero tassativamente passare attraverso l’umiliazione dei talent show? Sting avrebbe fatto il giudice? Joe Strummer avrebbe presentato opere liriche su Rai 5?
PERCHÉ
anche questo è cambiato: la fonte del reddito de ll’artista oggi si misura quasi esclusivamente nei concerti dal vivo. E, se non bastano, attraverso un ruolo all’interno dei talent; oltre al fattore economico incide anche quello della visibilità. Non è passata inosservata la presenza, qualche tempo fa, di Francesco De Gregori o- spite di X Factor. Specchio dei tempi: un gesto per sdrammatizzare oppure una tappa promozionale obbligatoria? C’è anche chi ha cercato di scardinare il sistema: i pionieri sono stati i Radiohead nel 1997 con l’album
In Rainbows, distribuito esclusivamente sul loro sito web con offerta libera. Salvo poi rientrare parzialmente nei circuiti tradizionali.
La verità è che non se ne esce: chiunque oggi voglia pubblicare un disco o un brano singolo ha a disposizione soprattutto la rete per emergere e, in seguito, la possibilità che le multinazionali della musica lo prendano in carico. Vale anche nel nostro Paese, capace negli ultimi anni di far emergere da You Tube molti degli artisti oggi po-
RECORD DI ASCOLTI PER I WIND MUSIC AWARDS. MA QUANTI TRA QUESTI ARTISTI, MOLTI PRODOTTI DAI TALENT, AVRANNO UNA VERA CARRIERA? POCHI, IL PANORAMA È ORMAI QUESTO
polari, da Fedez a Fabio Rovazzi. Ci sono ancora i discografici lungimiranti capaci di investire su un singolo artista?
CI SONO VOLUTI
cinque album per Lucio Dalla prima di diventare popolare al grande pubblico. Ligabue si è presentato a tutte le etichette discografiche per pubblicare il suo primo album ricevendo porte in faccia; è stata l’intuizione di Angelo Carrara a lanciarlo. Oggi lo scouting è delegato interamente ai talent: spesso sentiamo parlare del tale artista “lanciato da Maria De Filippi” c i ta nd o Emma o Alessandra Amoroso. Restano dei casi isolati quali Caterina Caselli, patron della Sugar, capace di imporre Bocelli sul mercato globale e di rinnovare costantemente la sua “scuderia” investendo attualmente sugli artisti di musica elettronica scoperti dal circuito underground dei club, quali Yakamoto Kotzuga, M+A, Joycut.
Oppure Dario Giovannini della Carosello Records, capace di portare al successo Thegiornalisti, dei quali si sono accorti – finalmente – anche i pigri programmatori radiofonici. Alle copie vendute si è sostituito il conteggio delle visualizzazioni di You Tube, il passaggio in streaming di Spotify e il download di iTunes. Tutto il marketing oggi si fa in rete con i trailer, le pillole del disco, i lanci sui social e tutto quanto può fidelizzare l’utente. Ecco perché i nuovi ar- tisti usciti dai talent assomigliano sempre di più a un bel prodotto di marketing patinato. Per trovare una vera alternativa bisogna cercare nel circuito indipendente, nelle etichette piccole con poco budget ma tanta passione, capaci di sostenere artisti non disponibili ai compromessi. Prediamo il talentuoso Dente: il problema di questi arti- sti di nicchia è che non lo sentirete mai in radio, non lo vedrete mai in tv, a massimo leggerete una sua intervista in qualche rivista specializzata.
MA LA PORTAscorrevole
dei talent non riserva a tutti il successo: a parte Marco Mengoni, Emma e pochissimi altri abbiamo assistito a una caduta impietosa nell’oblio. I talent sono diventati anche la vetrina promozionale per chi il successo l’ha già raggiunto: da Amici vediamo il giudice Nek, la coach Elisa e così via. Persino Manuel Agnelli, per anni portabandiera della musica indipendente e indomito accusatore delle major oggi è una star di Sky nel suo ruolo di giudice. La motivazione è e- sclusivamente economica: Boy George – oggi dj consolidato - prima di essere star del corrispondente talent inglese aveva un cachet sui 15-20.000 euro; dopo le apparizioni televisive è schizzato sui 50-60.000.
Si cerca di puntare sul contorno: merchandise, libri (oggi ogni artista ha almeno un libro pubblicato), eventi speciali, conduzioni televisive. L’imperativo categorico è arrangiarsi, si è ristretto il portafogli, i budget sono risicati. E dai Venditti, Tenco, Conte, Lauzi, Baglioni, De Gregori, Dalla, Graziani, Gaetano, Modugno, Celentano, Battisti siamo arrivati ai Gabbani e Rovazzi. Ma sarà poi così vero che “ci fanno volare”?
Altri tempi Ci sono voluti cinque album per Lucio Dalla prima di diventare popolare. Ligabue ha presentato il suo primo lavoro a tutte le etichette ricevendo porte in faccia