QUALCUNO SALVI SCALFARI DA SE STESSO
Accanto ad altri sicuramente più inquietanti, c’è un (non tanto) piccolo mistero, nel giornalismo italiano, che si potrebbe definire il caso Scalfari. In lunghi sermoni domenicali, un giornalista quanto mai importante continua a inanellare perle su perle, che vanno dalla svista veniale alla topica sesquipedale (e non si parla qui delle cantonate politiche), senza che la cosa susciti le reazioni che ci si aspetterebbe, vale a dire i lazzi e gli sberleffi dei suoi detrattori, e l’imbarazzo e la costernazione dei suoi ammiratori.
QUALCHE ESEMPIO, piluccando qua e là nei sermoni di Scalfari pubblicati da Repubblica negli ultimi tre o quattro mesi. Sublimi, nella loro lucentezza di perle, quelle incastonate nel sermone del 20 maggio, nel quale non solo l’attentato di Sarajevo è attribuito agli anarchici (avvolgendo così di mistero le ragioni che indussero l’Austria a dichiarare guerra alla Serbia invece che all’Internazionale anarchica), ma si resuscita il Partito d’Azione, estintosi per autoscioglimento nel 1947, elencandolo tra quelli che nel 1969 si mobilitarono per la morte di Pinelli. Il 14 maggio Scalfari si concede invece “una breve pausa culturale” (testuale), e ne approfitta per presentare come se fosse una frase letta nelle Serate di Pietroburgo di Joseph de Maistre quello che invece è il tema del Viaggio intorno alla mia camera, scritto dal fratello di lui, Xavier: più o meno come attribuire al fisico Bruno Pontecorvo il film
La battaglia di Algeri girato dal fratello Gillo, o a questi gli studi sui neutrini del primo. Analogo qui pro quonel sermone del 19 febbraio, dove si afferma che Machiavelli dedicò Il principe a Lorenzo il Magnifico (morto qualcosa come 21 anni prima che Machiavelli cominciasse a scriverlo) confondendolo col nipote Lorenzo duca di Urbino, del quale è stato detto che è passato alla storia appunto come “il principe a cui fu dedicato Il principe”. Una reminiscenza anch’essa “a orecchio”, ma causata, ammettiamolo, dalla deplorevole mania di dare ai nipoti il nome dei nonni, e perciò giustificabile; come per la stessa ragione sarebbe giustificabile prendere Vittorio Emanuele II per Vittorio Emanuele III, e attribuire al presunto Re Galantuomo nozze con una principessa montenegrina, e magari a Sciaboletta una liaison con la Bela Rosin. Da segnalare poi lo scoop nel sermone del 16 aprile, con la rivelazione che il vagone piombato col quale Lenin raggiunse la Russia nel ’17 era partito dalla Francia, mentre finora tutti, Lenin compreso, erano convinti che fosse partito dalla Svizzera; anche perché non potevano sospettare che quando concessero il permesso di transito i tedeschi fossero in grado di far entrare e uscire treni dalla Francia, con la quale all’epoca i loro rapporti si erano un po’ guastati. Ma, quanto a scoop, il più clamoroso rimane quello del 5 marzo: Aristotele (384-322) “nacque e morì nel III secolo a.C.” (più o meno come dire che Marx nacque e morì nel XX secolo d.C.). Alla luce di un tale scoop, l’intera storia della filosofia antica andrebbe riscritta, e per cominciare le grandi scuole post-aristoteliche non potrebbero più essere considerate tali perché diventerebbero d’emblée scuole pre-aristoteliche.
Si potrebbe continuare a lungo; ma basta così. Per tornare al mistero di cui si parlava all’inizio, non si tratta tanto del fatto che la pubblicazione di scempiaggini come quelle qui riportate non sollevi scalpore. Se non a una forma di mitridatizzazione, la cosa potrebbe essere dovuta alla tendenza a non infierire sulle de fa illance di una persona anziana; ma, se così fosse, sarebbe offensivo nei confronti di Scalfari che appare nel pieno del suo vigore intellettuale; senza aggiungere che di analogo fair play non sembra beneficiare quel suo coetaneo che è stato presidente della Repubblica, al quale non vengono risparmiate botte da orbi quando si ritiene che se le meriti. Oltre tutto, l’eccessiva disinvoltura culturale di Scalfari non è certo un portato del tempo e d el l’età, ma costituisce una costante della sua evoluzione – o, se si vuole, delle sue evoluzioni – nei tre quarti di secolo che vanno dagli esordi giovanili su “Roma fascista” ai fasti senili sulla Repubblica renzista, e dal sì alla monarchia nel referendum del 1946 al sì alla riforma in quello del 2016. Il vero mistero riguarda il fatto che a Repubblica non facciano niente per tutelare (da se stesso) il fondatore del giornale, e per risparmiare continui soprassalti di sconcerto ai più acculturati dei loro superstiti lettori; il cui eventuale quousque tandem, più che al predicatore domenicale, andrebbe rivolto a chi ne pubblica intatti i sermoni. Ma perché non glieli fanno rivedere da qualche stagista o tirocinante, possibilmente fresco di studi, incaricato di emendarli delle cappellate più clamorose, o almeno di richiamare l’attenzione dell’autore su di esse?
UNA PRIMAipotesi è che nessuno osi non dico correggere, ma anche solo segnalare a Scalfari i suoi più grossolani errori par délicatesse o per rispetto, cioè per non urtarne la suscettibilità. Ma è giusto, par délicatesse o per rispetto, lasciar andare qualcuno allo sbaraglio senza muovere un dito? Una seconda ipotesi è che a Repubblica l’imprimatur ai pezzi mandati dal Fondatore sia dato d’ufficio senza neanche leggerli, dovendosi per contratto prendere per oro colato tutto quello che lui scrive. A mal pensare, ci sarebbe poi una terza ipotesi (che non significa un’ipotesi del terzo tipo), e cioè che a Repubblica il problema degli svarioni contenuti nei pezzi scalfariani nemmeno se lo pongano, per la semplice ragione che non li percepiscono come tali; vale a dire, in sostanza, che se il problema viene ignorato è, appunto, per ignoranza.