Spostando la sinistra più in là: tra Macron, Hollande e altri guai
Liquefazione Il partito dell’ex presidente è stato archiviato dagli elettori, molti dei quali sono passati con Mélénchon
Rue de Solferino numero 10, sede del glorioso Partito socialista francese, non lontano dal Museo d’Orsay. Volti affranti. Sguardi smarriti. Porte chiuse. Poca voglia di parlare. Tanta voglia di piangere. Atmosfera luttuosa: il 9,51% delle Legislative è una sentenza di morte. Nel 2012 i deputati socialisti erano circa 300. Sarà grasso che cola se al termine dei ballottaggi ne resteranno una ventina. Quello che dagli anni 80 era diventato il partito dominante, è ormai ridotto a una larva politica. La razzìa elettorale di Macron ha massacrato la sinistra, sancendo di fatto la fine di un ciclo storico, ma soprattutto ha asfaltato il PS, che della sinistra era il partito “forte”. I socialisti eredi di Mitterrand sono ormai defunti, spiegano storici e politologi, la loro analisi ha i toni d’una litania triste e malinconica. Per qualcuno, è un affronto alla memoria di un grande partito che è precipitato in una lenta ma inesorabile involuzione, macerato da cinque anni di esercizio del potere, attaccato dal virus dell’impopolarità, discreditato dal risultato calamitoso delle Presidenziali.
È ANDATA MEGLIO, relativamente, a Jean-Luc Mélénchon, il leader della sinistra radicale, o meglio, “de la gauche de la gauche”, la sinistra della sinistra: nel senso che ora può dire di esserne lui l’alfiere, dopo la Waterloo dei detestati socialisti. Però l’11% raccattato alle legislative non lo pone molto più in alto rispetto ai rivali ex compagni, semmai assai più in basso rispetto alle presidenziali, dove aveva sfiorato il 20%, e alle sue aspirazioni: sperava di rastrellare i voti dei socialisti delusi, dei giovani, degli alternativi, degli ecologisti, dei pensionati, degli immigrati, degli arrabbiati delusi dalla Le Pen, addirittura immaginava di diventare primo ministro nel quadro di una “nuova coabitazione”. L’ex socialista Mélénchon aveva cercato di sensibilizzare i francesi contro il “monarca” Macron, invitandoli a non “dargli i pieni poteri”, il capo dello Stato, aveva ammonito, sta realizzando un progetto “che ci riporterà indietro al XIX secolo”, e a un
“golpe sociale”. L’appello non ha convinto, semmai ha indotto gli incerti a votare Macron.
MA QUESTA NARRAZIONE non consola i dirigenti di via Solferino, mal comune mezzo gaudio. I tenori del partito socialista sono stati quasi tutti liquidati. Come il primo segretario Jean-Christophe Cambadélis, che brigava per il 6° mandato consecutivo. E pure gli ex ministri Matthias Fekl, Pa- scale Boistard, Chrsitian Eckert; persino l’affascinante Aurélie Filippetti, che è stata ministro della Cultura nel governo di Jean-Marc Ayrault, ha pagato pegno e con lei Ségolène Neuville, Juliette Méadel. Un’ecatombe senza rispetto, cui non è scampato Benoit Hamon, lo sciagurato candidato presidente, bocciato in aprile con un ignominioso 6,3%. Le circoscrizioni che un tempo erano state le roccaforti del partito della rosa sono cadute una dopo l’altra, una disfatta senza precedenti: una “En marche funèbre!”, aveva titolato ironicamente mercoledì il malizioso ma lungimirante Le Canard enchainé, prevedendo il massacro elettorale.
Pensare che un tempo era stata affissa all’ingresso di rue Solferino 10 una targa per ricordare che l’8 agosto del 1944 i sindacati dei funzionari pubblici avevano partecipato all’insurrezione contro i nazisti e ripreso “ai traditori di Vichy” la loro sede... Oggi i socialisti accusano di tradimento Mélénchon, “hai distrutto la sinistra” ha gridato il barone socialista Julien Dray, mentre nel web c’è stato uno scambio di feroci tweet e di autodafé in 140 battute, “quando la sinistra non assume più i suoi valori di sinistra, è battuta”, ha chiosato madame Filippetti. Peggio, “il PS è ben chiaramente morto”, è il lapidario suggello di Jean-Marie Le Guen. Nessuno ha il coraggio di ammettere che la sinistra - francese, ma non solo - è in decomposizione e in agonia d’idee, a cominciare dai valori fondamentali della sua dottrina e che immense sono le difficoltà di una ricostruzione. Il fossato è profondo, non basta a colmarlo il ricambio generazionale, ma una faticosa e sofferta riappropriazione della “nostra eredità culturale”. Quella che Macron ha scippato.