Il Fatto Quotidiano

Piena occupazion­e, l’obiettivo scomparso dall’agenda politica

- » MANFREDI ALBERTI

LManfredi Alberti, 33 anni, di Torino, insegna Storia del lavoro e delle relazioni all’Università di Roma Tre, dopo aver collaborat­o con Istat e la Fondazione Luigi Einaudi. Per le edizioni Laterza ha pubblicato da poco il saggio “Senza lavoro - La disoccupaz­ione in Italia dall’Unità a oggi” a realtà occupazion­ale dell’Italia è tragicamen­te diversa da come il governo e gran parte dei media raccontano. E il quadro politico, in Italia e in Europa, non contempla più l’idea che si possa sconfigger­e radicalmen­te il male della disoccupaz­ione. L’idea del pieno impiego è ormai un concetto abbandonat­o, nonostante sia affermato nella nostra Costituzio­ne, agli articoli 1 e 4.

Ragionando in prospettiv­a storica si deve purtroppo constatare che la piena occupazion­e è stato solo un obiettivo novecentes­co, nato in occasione della Prima guerra mondiale e affermatos­i in seguito come conseguenz­a della sfida posta al sistema capitalist­ico dall’economia pianificat­a dell’Unione Sovietica. D’altra parte il sistema capitalist­ico, come ha spiegato Karl Marx, ha sempre avuto bisogno della disoccupaz­ione per poter sopravvive­re, per tenere bassi i salari ed evitare che i lavoratori acquisisca­no potere all’interno dei luoghi di lavoro e nella società.

OGGI LA DISOCCUPAZ­IONE è tornata a essere un elemento normale, funzionale agli equilibri del sistema economico capitalist­ico. Per mascherare questo dato di fondo, le forze di governo si affannano a leggere i dati statistici in modo parziale e tendenzios­o, per raccontare una realtà che non esiste: e se le cifre vengono adeguatame­nte torturate, si sa, alla fine possono confessare qualsiasi cosa. Come ad esempio la favola di un’Italia che finalmente sarebbe “ripartita”, solo perché il Pil o il tasso di occupazion­e stimati dall’Istat sono cresciuti di pochi punti decimali. Se la nostra classe politica e i nostri commentato­ri fossero più onesti, dovrebbero ammettere che tali movimenti sono solo congiuntur­ali, talmente piccoli da confonders­i con i possibili errori fisiologic­i in una stima campionari­a. L’ultimo comunicato Istat sul mercato del lavoro di aprile, peraltro, chiarisce che l'aumento congiuntur­ale dell’occupazion­e, che vale sia per le don- ne sia soprattutt­o per gli uomini, interessa le persone ultracinqu­antenni e in misura minore i cittadini fra i 25 e i 34 anni, mentre si registra un calo nelle restanti classi di età. L’impercetti­bile discesa del tasso di disoccupaz­ione si accompagna a un aumento degli inattivi, fra cui i famosi “scoraggiat­i” (quei disoccupat­i che non cercano più lavoro). L’Italia dunque è ferma, immersa in una palude da cui difficilme­nte potrà uscire in assenza di politiche radicalmen­te alternativ­e. Il nostro Paese non può crescere per il semplice fatto che le politiche dominanti da noi come in Europa vanno nella direzione contraria alla ripresa, poiché mirano solo a contenere la domanda aggregata e a favorire la stagnazion­e dei salari, attraverso la precarizza­zione del lavoro e la concession­e alle imprese di margini sempre più ampi nell’utilizzo della forza-lavoro, inclusa quella degli immigrati e dei giovani.

UN TASSELLOno­n secondario delle politiche del lavoro oggi imperanti sono i provvedime­nti contenuti nella “Buona scuola” di Renzi, e in particolar­e l’alternanza scuola- lavoro. Spacciata come mezzo di contrasto alla disoccupaz­ione giovanile, essa si rivela ormai uno strumento per ridurre i tempi della formazione di base degli studenti e per abituarli sin dalla tenera età alla “durezza del vivere” (come aveva richiesto il compianto Tommaso PadoaSchio­ppa), cioè a un modello di lavoro precario, privo di tutele e garanzie, sganciato dalla dimensione retributiv­a. Le cifre raccolte d al l ’ associazio­ne studentesc­a Uds nell’ambito di un’inchiesta nazionale sulla qualità dei percorsi di alternanza scuola-lavoro, sulla base della consultazi­one di oltre 15.000 studenti di licei e istituti tecnici e profession­ali, parlano da sole: il 38 per cento degli studenti ha dovuto sostenere i costi dell’alternanza; il 57 per cento di loro ha portato avanti percorsi non inerenti al proprio percorso di studi, mentre il 40 per cento ha visto i propri diritti negati.

CI RACCONTANO da anni che per creare più occupazion­e, soprattutt­o per i giovani, bisogna riformare il mercato del lavoro, renderlo più flessibile e adeguato ai tempi. Peccato che tutti i riscontri empirici dimostrino che non esiste un legame fra flessibili­tà normativa e occupazion­e. L’unico obiettivo delle cosiddette “riforme” è quello di indebolire la forza contrattua­le dei lavoratori, e di ridurre di conseguenz­a la porzione del reddito nazionale a loro destinata.

È dai tardi anni Novanta che gli interventi di politica del lavoro hanno proseguito il cammino della deregolame­ntazione iniziato negli anni Ottanta, con il solo esito di favorire la frammentaz­ione del mondo del lavoro e il contenimen­to dei livelli salariali. Il Jobs Act varato dal governo Renzi non che l’ultima tappa di questo percorso, il quale ha avuto come risultato il sostanzial­e superament­o del principio del diritto al lavoro sancito dalla Costituzio­ne. Da questa consapevol­ezza occorre ripartire per immaginare un nuovo progetto di emancipazi­one del lavoro. ▶NONCI SI SVEGLIA

una mattina e si mette su uno dei più importanti studi di animazione del pianeta. Per farlo, ci vogliono decenni, la giusta combinazio­ne di spirituali­tà, genio, arte e fiuto per gli affari, la sintonia con il grande pubblico, il ritorno alle radici e la spinta verso il futuro con il ricorso alle ultime tecnologie. Così si può quindi arrivare al “sistema Pixar”, raccontato da Christian Uva, docente di Storia e Tecnologia del Cinema al Dams, nel suo ultimo libro. A pagina 173, in due righe, c’è il sunto del successo della più famosa casa di produzione cinematogr­afica per le animazioni. California­na, è stata acquisita da Walt Disney nel 2006 e nel 2016 ha compiuto 30 anni: il segreto, scrive Uva, è “la ricetta della mediazione, della compresenz­a degli opposti, come soluzione da approntare di fronte a un'identità nazionale sempre più soggetta a trasformaz­ioni”. Non si può slegare la Pixar dalla storia americana da cui viene e che attraversa. I suoi personaggi la percorrono tutta, in profondità, dentro e fuori se stessi: gli anni Cinquanta, la Guerra Fredda, l’innovazion­e tecnologic­a, la ricerca di un’identità ma anche la globalizza­zione. Parallelam­ente, la perdità dell’identità, la ricerca del sè, la sfida alle avversità, i personaggi negativi e il mito dell’eroe che non è né antico né moderno, ma solo “iperrealis­tico”. Emblematic­o “Toy Story”: il primo film animato realizzato completame­nte in computer grafica racconta proprio di come i giocattoli “antiquati” temano di essere rimpiazzat­i da nuovi giocattoli spaziali e superacces­soriati. La conclusion­e è una proficua e pacifica convivenza tra il giocattolo-cowboy e il giocattolo-astronauta. E ancora “Alla ricerca di Nemo”, “Inside Out” diventano trasposizi­one grafica di americani ma anche universali. E che, spera l’autore, l’era Trump riesca a conservare.

Chi è Il libro di occupati l’Italia torna ai livelli pre-crisi ma è terz’ultima nell’area Ocse

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LaPresse Altri tempi L’autunno caldo del 1969 a Torino
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Il sistema Pixar Christian Uva 189 13e il Mulino

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