I campioni Nba schiacciano Trump
“NO CASA BIANCA” Basket, i Warriors vogliono disertare
Oggi
è il compleanno di Donald Trump: fa 71 anni, una bella età per un presidente novellino. Perché la festa sia degna, s’è trasferita alla Casa Bianca la moglie Melania con il figlio Barron, 11 anni: finite le scuole, la ‘first lady’ex modella non ha più scuse per restare a New York. Ma ieri per Trump è stata una giornataccia: la stampa che racconta storiacce sul suo conto, persino che vorrebbe licenziare il procuratore speciale sul Russiagate Roberl Mueller III; la commissione intelligence del Senato che torchia il ministro della Giustizia Jeff Sessions, un ometto fragile; e i Golden State Warriors, che hanno conquistato lo scudetto del basket Nba, non andranno alla Casa Bianca a ricevere le congratulazioni presidenziali.
C’e r a già stato uno screzio con i Patriots di Boston, campioni di football americano: alcuni atleti disertarono la cerimonia, ma c’era il capitano e icona Tom Brady, amico di Trump. Ora, invece, il no della squadra sarebbe unanime: Steve Kerr , il coach, il cui padre morì ucciso in Libano, s’oppone strenuamente al bando all’i ngresso negli Usa dei cittadini d’alcuni Paesi musulmani e a molte altre decisioni di Trump; e la star Steve Curry ha spesso criticato il presidente. Nel 2015, quando vinsero il titolo dopo un lungo digiuno, i Warriors furono ben felici d’essere ricevuti alla Casa Bianca da Obama.
A metter di cattivo umore Trump, ancora a notte fonda, aveva iniziato la Cnn, dicendo che il presidente starebbe considerando l’ipotesi di licenziare Mueller e citando come fonte un amico del presidente, Christopher Ruddy.
Debole la replica della Casa Bianca: “Ruddy esprimeva sue opinioni”. E bastava l’ipotesi a indurre i repubblicani ad alzare le barricate: “Mueller non si tocca”. Il farlo “sarebbe un disastro”, spiegava Lindsey Graham, senatore, esperto di difesa e sicurezza. Paul Ryan, speaker della Camera, invitava il presidente a “lasciare lavorare il procuratore speciale in santa pace”.
Dopo il licenziamento del direttore dell’Fbi James Comey, la nomina di Mueller, funzionario che ha già lavorato con Bush jr e Obama, era servita a calmare le acque in Congresso, dove l’onda del Russiagate – la vicenda dei contatti tra uomini di Trump ed emissari del Cremlino durante e dopo la campagna elettorale - agita gli animi.
E MENTRE SESSIONS, ricusatosi sul Russiagate, s’apprestava a testimoniare in Congresso, il suo vice Rod Rosenstein, a sua volta chiamato a rispondere in una commissione parlamentare, chiariva che non avrebbe mai “eseguito” ordini del presidente su Mueller, a meno che essi non siano “legali e appropriati”. Trump se la prendeva, come al solito, in un tweet, con la stampa, “Mai fake news, false notizie, così sbagliate, in malafede e luride”.
Seduto al tavolinetto allestito davanti alla Commissio- ne intelligence, lo stesso dietro cui s’accomodò il 6 giugno Comey, una sorta di graticola mediatica e istituzionale, Sessions diventa, suo malgrado, protagonista d’un rito solenne della democrazia statunitense, della cui qualità sono prova più le domande dei senatori inquirenti che le sue risposte. Il ministro è a disagio, s’agita, sbuffa e, spesso, non ricorda.
Sessions comincia all’attacco, dicendo che le interferenze russe nelle elezioni 2016 non possono essere tollerate. Ma pois i chiude indifesa: non ricorda il contestato terzo incontro con l’ ambasciatore russo Sergei Kysliak: erano entrambi a un ricevimento all’Hotel Mayflower, a Washington, ma lui non ricorda d’aver interagito con lui; spiega d’essersi ricusato dall’indagine per rispettare i regolamenti; conferma d’esser all’origine del licenziamento di Comey: aveva l’impressione che non fosse adeguato e ne raccomandò l’avvicendamento; dice che Comey non gli rivelò il dettaglio delle conversazioni con il presidente, ma gli espresse preoccupazioni per le modalità di comunicazione con la Casa Bianca.
Sessions spende molto tempo a difendere se stesso, a fare argine al presidente e al genero Jared Kushner: “Ho subito falsi attacchi, sono stato vittima di fughe di notizie”. Negli Usa di Trump, è sempre colpa della stampa.
Le voci su Mueller
Il repubblicano smentisce di voler silurare il supervisore dell’inchiesta