Lite tra Gentiloni e Renzi sulla fiducia al ddl penale
Il debole premier è divenuto un leader forte: nessuno in Parlamento vuole andare a votare
La riforma della giustizia è passata ieri alla Camera. Con la fiducia. Sulla quale martedì c’è stato l’ennesimo confronto tra il segretario del Pd, Matteo Renzi e il premier, Paolo Gentiloni. Il primo non avrebbe voluto, il secondo ha insistito, ha resistito. Anche perché il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, da sempre indicato – insieme ai centristi – come l’ostacolo all’approvazione della legge, aveva fatto sapere domenica che alla fiducia avrebbe detto sì. E allora cadeva la motivazione ufficiale per cui Renzi – dal governo –non ha mai ceduto alle richieste di Andrea Orlando di aiutare così il provvedimento. Tanto è vero che era stato presentato alla Camera il 23 dicembre 2014 e approvato il 23 settembre 2015 in prima lettura, e rimasto impantanato in Senato fino al 15 marzo.
E dunque? I renziani dicono che le perplessità dell’ex premier dipendevano dalle critiche da parte dei magistrati e degli avvocati e dal fatto che tante cose andavano corrette. In realtà, la legge interviene sulla ex Cirielli, alzando i tempi della prescrizione: capisaldi del sistema berlusconiano (con tutto quello che significa, anche a vantaggio della corruzione) che il segretario aveva dei problemi a smontare. Non a caso Gentiloni la rivendica con un Tweet (“Varata la riforma del processo penale. Equilibrio e garanzie nelle procedure, pene severe per i reati più odiosi”), mentre da Renzi neanche una parola, anche se ieri sera a Otto e mezzo parla di tutto. La fiducia passa con 320 sì è 149 no, con un ok finale, però, di soli 267 voti a favore. “Oggi è una giornata importante per la giustizia italiana”, scrive Orlando. Enrico Costa, ministro della Famiglia, mantiene la sua posizione e dice no.
ECCO il primo effetto della “pacificazione nazionale”. Quella che invocava Renato Brunetta, capogruppo di FI alla Camera, la settimana scorsa, invitando a votare la legge elettorale “alla tede- sca”, frutto dell’accordo a 4. Alla fine, la pacificazione nazionale è in atto, ma esattamente per i motivi opposti. La legge non si fa, il 24 settembre non si vota e il Parlamento intero è a sostegno del governo, pronto a far passare praticamente qualsiasi cosa, purché la legislatura non cada. E così, ieri i centristi hanno votato la riforma della giustizia, oggi Mdp si prepara a non partecipare al voto sulla manovrina (che contiene i voucher, contro i quali si sono scagliati più volte) pur di non mettere in difficoltà il premier. Tra l’altro, i 6 senatori di Campo progressista diranno di sì al decreto. E FI aiuterà con qualche assenza.
Insomma, la fiducia è diventato il modo per dare vita
Assenze tattiche Oggi in Senato si vota la manovrina: Mdp non parteciperà (e pure qualcuno di FI)
di fatto alle maggioranze variabili e far passare qualsiasi cosa si decida a Palazzo Chigi. O al Nazareno. La cosa, infatti, potrebbe avere anche un’altra conseguenza: ovvero le agende si potrebbero distinguere, in una di Renzi e una di Gentiloni. Il primo, in questa fase, si dice pronto a far approvare una serie di leggi di “sinistra”, come la cittadinanza agli immigrati, ovvero lo ius soli, il testamento biologico, rea- to di tortura. Nel tentativo di recuperare una certa identità di centrosinistra e convincere Giuliano Pisapia, in primis, ad allearsi con lui. “Facciamo le alleanze sui contenuti. Non sui nomi", dice infatti ieri sera dalla Gruber.
DA VEDERE fino a che punto il premier seguirà le priorità renziana. E anche quanto cercherà di differenziarsi. Perché poi il segretario del Pd punterà a intestarsi successi e scelte. Come ha fatto ieri, a proposito della manovra che verrà: “Non sarà pesante, se ci sono segni di miglioramento nell’economia è perché la scorsa legge bilancio era buona. Non ci sarà l’aumento dell’Iva”.
Matteo e il favore a B. La prescrizione lunga non piace al nuovo alleato: il segretario dem voleva bloccarla