Antologie, classici e altre sciagure: letteratura in classe
“Gli analfabeti al giorno d’oggi sanno leggere” notava Eugenio Montale (un ragioniere che non aveva fatto studi classici né si era laureato ma aveva vinto il Nobel per la Letteratura nel 1975). La battuta ci è venuta in mente leggendo sul Fatto Giovanni Pacchiano, scrittore e critico letterario, che ieri rifletteva sul declino della preparazione letteraria degli studenti italiani: tra le cause ci sarebbero (anche) le antologie scolastiche, troppo concentrate sull’800 e il primo Novecento, poco attente all’Europa e al mondo, soffocate dagli apparati. C’è indubbiamente del vero (troppo D’annunzio, poco Proust). Anche se a ben vedere l’800 è stato un secolo di straordinario fervore narrativo, perno del cambiamento e quindi probabilmente anche specchio dei nostri tempi. Qualche anno fa il nostro giornale pubblicò per tutta l’estate i racconti di alcuni scrittori del catalogo dei Grandi libri Garzanti (Balzac, Tolstoj, Gautier, Maupassant) e l’iniziativa ebbe un gran successo tra i lettori. Interrogammo sulle ragioni alcuni scrittori e critici. In un’intervista Antonio Pascale disse: “Secondo il grande critico Erich Auerbach la storia letteraria si divide in due grandi blocchi stilistici, tra loro non comunicanti: l’aulico e il grottesco. Attraverso il primo si potevano proporre al lettore domande esistenziali. Il grottesco, invece, era usato per far ridere. Ai ricchi, ai nobili, ai principi era permesso interrogarsi, soffrire, cadere e rialzarsi. Al contrario i poveri, quando apparivano sulla scena dovevano far ridere, il grottesco li caratterizzava negli aspetti bassi ed esteriori, per loro niente domande introspettive. Bisogna aspettare l’800 per assistere alla fusione di questi due stili in uno solo, per leggere di personaggi umili che possono interrogarsi sui grandi temi”.
IN REALTÀ i programmi delle scuole superiori sono oggetto di un ciclico dibattito. Poche settimane fa, per esempio, Pagina99 ha fatto suo un appello di intellettuali (tra cui Claudio Giunta, Andrea Camilleri, Emanuele Trevi) che chiedeva di “abolire” la lettura de I promessi sposidai programmi scolastici. Marco Filoni, autore dell’articolo “La noia di leggere Manzoni a 15 anni”, parla di “familismo culturale”: “I nostri padri vogliono che studiamo le stesse cose che hanno studiato loro, così come noi vogliamo che i nostri figli studino quello su cui siamo incappati noi stessi”.
Sarà vero? E sarà vero che gli studenti si annoiano? Una volta Pietro Citati ha raccontato che lo leggeva in classe, quando insegnava agli avviamenti, dove c’erano ragazzini che a malapena sapevano l’italiano. E a loro piaceva moltissimo. Il tema è forse più come lo si legge che il testo in sé. Che a ben vedere è anche molto divertente, veramente romanzesco, pieno di colpi di scena. Non solo: ci si chiede oggi se I promessi sp os i sia ancora il romanzo costitutivo dell’identità nazionale. Pensiamo solo a quanti personaggi sono diventati tipi: Perpetua (addirittura un sostantivo), Don Abbondio, Carneade, Gertrude. Agli studenti viene presentato come esemplare, ma forse bisognerebbe leggerlo per quel che è: una (bellissima) storia. L’approccio scolastico, poi, dovrebbe essere un’iniziazione, senza dire che una sola lettura del romanzo risciacquato in Arno non basta. Cosa si perderebbero i ragazzi? Non saprebbero mai, per dirne una, che in sole tre parole si può spalancare un mondo, scrivere una vicenda tormentata e torbida: “La sventurata rispose”, un’esistenza intera. Se sopprimessero la storia di Renzo e Lucia probabilmente piano piano il libro scomparirebbe: i ragazzi hanno bisogno che qualcuno dia loro una chiave per capirlo e appassionarsi. Se non succede, pure James Ellroy finisce per “puzzare di scuola”.