“Nascosti fin dal 1990 i rapporti sull’inquinamento in Veneto”
I carabinieri del Noe: “L’azienda Miteni non informò la Regione dei veleni da Pfas”
Trent’anni di ritardi e di silenzi. Trent’anni di studi tenuti in un cassetto, mentre la contaminazione da Pfas si propagava nella falda acquifera del Veneto fino a raggiungere l’estensione mostruosa di oggi: un’area di quasi 150 mila chilometri quadrati, più di 300 mila persone esposte agli agenti chimici e almeno tre province colpite, Vicenza, Verona e Padova. Secondo gli investigatori della Procura di Vicenza da tempo erano disponibili le prove del grave inquinamento dei terreni e delle acque intorno a Trissino (Vicenza), ma sono state tenute riservate per anni dall’azienda che produce le sostanze perfluoro-alchiliche, Pfas appunto, composti impiegati per rendere impermeabili i fondi delle pentole e i tessuti. La contaminazione è poi emersa nel 2013 in seguito a uno studio del Cnr sui bacini fluviali, innescando l’emergenza sanitaria e ambientale in Veneto, dove le sostanze sono arrivate a interessare l’acqua potabile.
UNA RELAZIONE dei carabinieri del Noe di Treviso, resa nota ieri dal Tgr del Veneto e inviata due giorni fa al Ministero dell’Ambiente, all’Istituto Superiore di Sanità e agli enti locali, punta il dito contro la Miteni, la fabbrica chimica incastonata tra le risorgive della Valle del Chiampo che produce Pfas da quasi mezzo secolo. Secondo il Noe in almeno cinque occasioni, “negli anni 1990, 1996, 2004, 2008 e 2009” la Miteni ha dato incarico a società di consulenza ambientale di verificare lo stato di inquinamento del suo sito industriale: ma l’azienda, pur avendo “l’obbligo giuridico di comunicare agli enti competenti le risultanze emerse – continuano i carabinieri – sino ad oggi non ha mai trasmesso le citate indagini”. Fin dal 1990 quindi, secondo la documentazione esaminata dagli investigatori, i consulenti dell’azienda avevano rilevato la contaminazione dei terreni e delle falde da benzotrifluoruri e, in seguito, da perfluoroottanoato di ammonio (Pfoa, un composto della famiglia Pfas) ma “la condotta omissiva del gestore ha comportato che l’inquinamento da Pfas – prosegue il Noe – si propagasse nella falda a chilometri di distanza, provocando il deterio- ramento dell’ambiente, dell’ecosistema, nonché probabili ricadute sulla salute della popolazione residente che per anni potrebbe aver assunto inconsapevolmente acqua contaminata”.
Nemmeno dopo l’avvio della bonifica del sito nel 2013, nel corso delle conferenze dei servizi, le informazioni contenute negli studi sarebbero state comunicate agli enti, impedendo così di “comprendere ed affrontare efficacemente la problematica”. Accuse pesanti, condensate in un passaggio chiave: per quasi trent’anni, in questo modo, la sorgente dell’inquinamento “non è mai stata rimossa e ha continuato a contaminare il terreno e la falda sino ad oggi”.
Finora la Miteni, la cui proprietà è passata più volte di mano negli ultimi anni (dalla Marzotto all’Enichem, dalla Mistubishi alla Icig), ha sempre rigettato le contestazioni avanzando distinguo rispetto alle gestioni passate: “L’attuale gestione – fa sapere l’azienda chimica vicentina – non ha evidenza di alcuna rilevazione effettuata sui terreni prima di quella del 2013. Quelle relazioni che citano i carabinieri noi non le abbiamo mai viste. Quando nel 2013 abbiamo effettuato la caratterizzazione d el l’area abbiamo prontamente e volontariamente informato le autorità della presenza di sostanze nell’acqua di falda. L’operato dell'attuale gestione e proprietà è stato sempre improntato al rispetto della legge e alla massima trasparenza”. Ma per gli investigatori del Noe la gravità e l’e-
La falda contaminata Oltre 300 mila persone sono esposte alle sostanze prodotte nel Vicentino
stensione dell’ inquinamento, che “potrebbe comportare gravi rischi per la salute umana”, rende ormai necessario l’intervento diretto degli organismi nazionali. Se la Miteni avesse comunicato per tempo l’inquinamento chimico di cui era a conoscenza, concludono i Noe, “la ditta avrebbe dovuto sostenere una ingente spesa perla rimozione e los maltimento del terreno contaminato, oltre alla necessità di smantellare parte dell’ impianto produttivo”.