Armi, il made in Italy che non conosce crisi
Non solo Arabia Saudita: dalla Libia all’Egitto è un fiorire di cannoni e mitra tricolori
La
definitiva conferma dell’uso da parte dell’Arabia Saudita di bombe italiane contro obiettivi civili nello Yemen riapre il dibattito sull’esportazione del made in Italy militare verso Paesi in guerra.
La lista degli armamenti italiani venduti in giro per il mondo e impiegati in conflitto è molto, troppo lunga. La situazione non è tanto cambiata da quella degli anni 70 descritta nel famoso film di Alberto Sordi Finché c’è guerra c’è speranza, nonostante dal 1990 la legge italiana vieti esplicitamente la vendita di armi a Paesi in guerra.
R I MA NE N DO a ll ’ A r ab i a Saudita, tra i principali clienti dell'industria bellica italiana, e al conflitto nello Yemen, ci sono i 72 cacciabombardieri Typhoon regolarmente usati nelle missioni, venduti nel 2007 a Ryad dal consorzio Eurofighter di cui fa parte Finmeccanica (oggi Leonardo): un affare autorizzato dal governo Prodi e dall'allora ministro degli Esteri D'Alema, che al gruppo industriale italiano ha fruttato 2 miliardi di euro.
S po st a nd oc i in Siria, troviamo i sistemi di puntamento e controllo del tiro TURMS della Selex ( azienda del gruppo Finmeccanica) per i cannoni dei carri armati, venduti a Damasco per circa 250 milioni di euro dal 1998 (governo Prodi, autorizzazione del ministro Dini) fino al 2009 (governo Berlusconi, autorizzazione del ministro Frattini). Carri armati impiegati nella guerra civile siriana sia dal regime di As- sad che dall'Isis che li ha sottratti all'esercito governativo. Ma è nella guerra civile in Libia che le armi italiane la fanno da padrone: da quelle pesanti vendute a Gheddafi in passato e riammodernate nel 2007 su autorizzazione del ministro D'Alema (governo Prodi), come i cannoni semoventi cingolati da 46 tonnellate Palmaria della Oto Melara, protagonisti della battaglia di Sirte dell'anno scorso (venduti negli anni 80 e ammodernati da Finmeccanica per 2,6 milioni), i caccia- bombardieri leggeri Siai Marchetti SF-260 con cui Gheddafi nel 2011 ha bombardato Misurata (venduti negli anni 70 e ammodernati da Alenia sempre per 3 milioni) o gli elicotteri CH- 47 Chinook ( ammodernati da Finmeccanica per 54 milioni di euro), a quelle leggere vendute nel 2009 ( Berlusconi- Frattini): 11 mila pistole e fucili mitragliatori Beretta per un valore di 80 milioni di euro, che allo scoppio della guerra civile nel 2011 furono trafugati dai magazzini del re- gime, finendo nelle mani dei ribelli e poi negli arsenali dell'Isis, infine rimesse in vendita nel 2016 al mercato nero di Bengasi.
FUCILI D'ASSALTO e pistole esportate dalla Beretta anche in Egitto: solo tra il 2014 e il 2015 la ditta bresciana ha venduto alle forze di sicurezza del Cairo merce per un valore di 12,7 milioni di euro. Armi affidate a un Paese dove i conflitti sociali sono a livelli da allarme rosso con il regime di al-Sisi che stringe le maglie con mezzi poco ortodossi. Stessa situazione in Messico, che solo tra il 2011 e il 2012 ha comprato dalla Beretta quasi 6.000 fucili d’assalto e oltre mille fucili automatici.
Infine c'è la Turchia, che bombarda i villaggi curdi con gli elicotteri italiani T-129, frutto di un contratto di coproduzione firmato nel 2007 che all'epoca fruttò ad AgustaWestland (Finmeccanica) oltre 1 miliardo di euro.
La legge 185 del 1990 che vieta la vendita di armi a Paesi in guerra e responsabili di gravi violazioni di diritti umani non ha mai impedito ai governi di ogni colore di autorizzare forniture “v ie t at e ”, grazie a una semplice trovata che consente di aggirare il divieto: la stipula di un accordo bilaterale di cooperazione militare. Un sotterfugio che un ex ministro della Difesa di nome Sergio Mattarella denunciò anni fa come “un grave svuotamento delle disposizioni contenute nella legge 185”.
Il trucco
La legge che vieta l’export c’è ma basta un accordo di cooperazione militare bilaterale e il gioco è fatto