Meglio ridurre l’Irpef che il cuneo fiscale, ma l’importante è tagliare
LIl governo Renzi ha introdotto clausole di salvaguardia (cioè aumenti automatici di imposta) per rispettare gli impegni con la Commissione europea. Quelle che scatteranno a gennaio 2018 valgono 19,6 miliardi solo per il primo anno e prevedono un aumento delle aliquote Iva. Matteo Renzi ha promesso che l’aliquota non salirà. Ma circola un’ipotesi alternativa: far salire un po’ l’Iva e usare le risorse per ridurre il cuneo fiscale (la differenza tra quanto guadagna un lavoratore e quanto costa all’azienda) a ricorrente suggestione di spostare il carico fiscale dalle persone alle cose si trova, questa volta, tra le nuove osservazioni del Fondo monetario internazionale. Questa visione del rapporto tra struttura fiscale e crescita economica, dove la seconda sarebbe irrobustita dall’a c c e nt u a z io n e delle imposte diverse da quelle sui fattori di produzione, si consolida negli anni Duemila, sulla scorta di alcuni lavori sviluppati presso istituzioni internazionali (con la pubblicazione, nel 2011, di un articolo nel prestigioso Economic Journal da parte di Arnold e altri).
UN CONTRIBUTOalla creazione di questo comune sentire è stato fornito dai problemi che la globalizzazione ha posto al potere degli Stati nazionali di prelevare tributi su basi imponibili sempre più mobili e di difficile definizione. Unitamente alla constatazione che il carico fiscale sul lavoro è in Europa sensibilmente superiore a quello dei partner internazionali, tutto ciò ha creato il mito della relazione positiva tra crescita economica e imposte sui consumi e sulla proprietà immobiliare. Tuttavia, poiché non esiste una teoria che stabilisca tale relazione, la congettura è materia di evidenza empirica.
Diversi studi successivi a quello citato, dimostrano che i risultati mutano in funzione del periodo considerato, dei Paesi inclusi nell’analisi, del modo di specificare la relazione tra le variabili. In particolare, in un recente articolo (Di Sanzo, Bella, Graziano, uscito sull’ultimo numero dell’It alian Economic Journal) si chiarisce che l’impatto della struttura fiscale sulla crescita di lungo termine si modifica in funzione del livello complessivo della pressione fiscale ed è, comunque, variabile tra paesi, implicando che le prescrizioni che spesso vengono indicate come la stella polare per una policy growth friendly (a sostegno della crescita) possono avere effetti opposti a quelli desiderati se non si tengono in debito conto le specifiche condizioni di contesto dei sistemi cui andrebbero applicate. Tenendo conto di questi aspetti e del fatto che crescita, pressione fiscale complessiva e struttura fiscale devono essere considerate il risultato simultaneo dell’operare di tutte le forze economiche in campo, l’asserita superiorità delle imposte sui consumi rispetto a quelle sul reddito scompare del tutto. L’unico risul- tato robusto è che le tasse sulla proprietà immobiliare, prelevate con aliquote ragionevoli e senza colpire gli immobili strumentali all’attività produttiva, sono relativamente meno dannose per la crescita economica. Inoltre, tutti i lavori sull’argomento stimano una correlazione negativa tra pressione fiscale complessiva e crescita economica.
QUESTO PUNTO fondamentale è sovente trascurato dagli stessi studi scientifici che lo identificano perché l’effetto di tributi e contributi dovrebbe essere più correttamente valutato considerando come si impiegano tali risorse (cioè unitamente all’efficacia e all’efficienza della spesa pubblica).
L’impatto negativo di un’elevata pressione fiscale sulla crescita di lungo termine, comunque, resta, ma se ne parla poco anche a causa dell’autocensura determinata da un diffuso abito mentale che vorrebbe lo stato come aiuto per chiunque e soluzione per qualsiasi problema. Meno tasse vorrebbe dire, però, meno Stato. Quindi meglio sorvolare.
INFINE, BISOGNA RICORDARE che le versioni integrali dei documenti ufficiali appaiono, sulla questione, più articolati e molto meno perentori di quanto sembri a leggere le sintesi mediatiche. Ad esempio, proprio in termini di modificazione della struttura fiscale viene sottolineato che: l’esito dipende sempre dal livello complessivo della pressione fiscale e il tax shift non dovrebbe mai accrescerlo; le aliquote legali dei singoli tributi devono essere quanto più basse possibile dal momento che i rendimenti dei tributi sono decrescenti; le basi imponibili specifiche oggetto dell’intervento devono godere di buona salute; è necessario tenere sempre conto dei potenziali peggioramenti della disuguaglianza personale che potrebbero conseguire all’aumento di tributi con caratteristiche regressive.
Questi documenti hanno sviluppato uno stile narrativo del tutto originale: partono con un’affermazione inequivoca (spostare il carico fiscale dalle persone alle cose: la parte breve che passa sui media) e proseguono poi contraddicendola o, almeno, mitigandone grandemente la portata attraverso un progressivo restringimento degli ambiti di validità (la parte che non passa sui media).
Fortunatamente, c’è un modo semplice e immediato per mettere tutti d’accordo. Se si vuole spostare il carico fiscale dalle persone alle cose per fare crescere l’economia è sufficiente abbassare in modo ragionevole e generalizzato le aliquote dell’Irpef. Pensateci. * Direttore Ufficio Studi Confcommercio ▶TUTTOQUELLO
che sapevamo sul mondo della comunicazione e dell'editoria non esiste più: o meglio, sta cambiando rapidamente, lasciandoci lì, a guardare. Il crepuscolo dei media di Vittorio Meloni, descrive pienamente le trasformazioni della comunicazione e al tempo stesso, i mutamenti sociali che ci circondano, in un quadro dove i due attori, i media e la società, si condizionano a vicenda. Mentre crollano le vendite dei giornali, la Tv è alla costante ricerca di budget nella rincorsa alle nuove offerte delle piattaforme web, come Netflix, Amazon e Apple Tv, scelte da un numero sempre maggiore di spettatori. La perdita di fiducia nei quotidiani, considerati sempre di più la voce dell'establishment, lontana dalle esigenze reali, come nel caso delle Presidenziali in America, dove Donald Trump non era il candidato supportato dalla stampa. Ma anche il controllo dei grandi gruppi dell'editoria per riuscire a contrastare la concorrenza del web, fino alla radio: strumento originario della comunicazione che dopo un lento oblio sembra rivivere una nuova primavera. Viene descritta la frammentazione del mondo, delle sue culture e dei cambiamenti che influenzano il modo di fare comunicazione e di informarci, preferendo sempre di più grandi quantità di fonti e di modi diversi di raccontare. Un’informazione che diventerà sempre più liquida, come teorizzato da Zygmunt Bauman, in un quadro dove il futuro della comunicazione è già davanti a noi ed è il web: una multitudine di opinioni e partecipazioni protagoniste stesse dell’informazione. Per Vittorio Meloni i nuovi media sono già nati e “sono le piattaforme social”. Chissà se l’editoria raccoglierà la sfida e riuscirà a fondersi con la nuova realtà digitale?
L’ipotesi miliardi di clausola di salvaguardia, rischio aumento Iva nel 2018