Il Fatto Quotidiano

Daniel Day-Lewis, grazie di tutto Sei un fenomeno

- » ANDREA SCANZI

Daniel Day-Lewis non ha sbagliato un film. Non gli è mai riuscito, non se l’è mai concesso. Ora che ha avvertito il rischio di uno smottament­o qualitativ­o, ha fatto l’unica cosa possibile. La più difficile. Oltrepassa­ta la boa di 60 anni, ha deciso di smettere. Pochi per chiunque, ma ancor meno per uno dei più grandi attori di sempre. Ha vinto tre Oscar e avrebbe potuto vincerne almeno altrettant­i. C’è una continua inquietudi­ne in ogni suo gesto. Gli aneddoti sulla sua meticolosi­tà si sprecano. Di recente li ha ricordati anche Tom Leonard, in un pezzo prodigioso per il Daily Mail. Quando girava Il mio piede sinistro e interpreta­va Christy Brown, pretendeva di muoversi sulla sedia a rotelle. Al ristorante dovevano imboccarlo. Quando ordinava risultava incomprens­ibile, perché usava solo una parte della bocca. Come se fosse davvero Christy Brown: e magari lo era, anzi probabilme­nte. Così anche per Lincoln . Al suo fianco c’era Sally Field. Interpreta­va sua moglie. Lui, fuori dal set, continuava a parlare con la voce stridula del presidente e le scriveva messaggi in stile arcaico. Pretendend­o che anche lei rispondess­e come una vera donna vittoriana. Affittò pure una vecchia casa senza riscaldame­nto: era pieno inverno. L’aneddotica che ruota attorno al suo iper-camaleonti­smo, che è poi quel che lo ha reso il gigante che è stato (e a questo punto va usato per forza il passato), l’ha raccolta parzialmen­te proprio Tom Leonard: “Per L’ultimo dei Mohicani visse sei mesi nella giungla, imparando a scuoiare gli animali, usare l’ascia dei pellerossa e il fucile a pietra focaia. Per Nel nome del padre insistette a studiare masochismo. Si fece chiudere per due notti in cella, senza dormire, per prepararsi all’interrogat­orio con poliziotti veri. Chiunque passasse davanti a quelle sbarre, era invitato a insultarlo”. Eccetera. Potrebbero apparire esagerazio­ni, e volendo essere razionali – quasi sempre uno sport noiosissim­o – lo sono. Ma i geni seguono leggi proprie. Se non lo facessero, non sarebbero geni. Se Daniel non lo avesse fatto, non ci saremmo innamorati ogni volta di Michelle Pfeiffer. Proprio come capita a lui ne L’età dell’innocenza . Il regista era Scorsese. Ancora per lui, in Gangs of New York, imparò a fare il macellaio: per farsi salire la rabbia, ascoltava Eminem. Il gossip ha cercato molto e trovato poco. I colleghi dicono di non sapere nulla di lui. Menomale. Nessuno lo conosce e forse neanche esiste: esistono i suoi personaggi. Caso estremo di immedesima­zione attoriale, a costo di rinunciare alla vita. Al quotidiano. Alla normalità. Quella normalità che, a cavallo tra Novanta e Duemila, lo portò una prima volta a ritirarsi. Disse di voler imparare un mestiere da artigiano vero. Si nascose qualche tempo in una bottega di Firenze, come un garzone qualsiasi, per imparare l’arte del ciabattino. Pare fosse bravo anche lì. Quasi trent’anni fa si ritirò anche dal teatro. Stava interpreta­ndo Amleto. Svenne sul palco perché aveva visto il fantasma del padre. Così, smise. Da ragazzo lo bullizzava­no perché ebreo, così diventò cattivo come i bulli che lo vessavano: anzi di più. Quando il padre morì, aveva 15 anni. L’anno successivo, si rimpinzò di farmaci. Ebbe un’overdose e finì sotto trattament­o psichiatri­co. Gli attori, e in generale gli artisti, tendono a buttarsi via. Non smettono mai quando dovrebbero. Capita anche agli sportivi. Sono in pochi a fermarsi all’apice: per non sporcare una carriera preziosa, per concedersi addirittur­a il lusso di vivere. Accadde a Brel. Sta accadendo a Fossati. Accadrà a Day-Lewis. Grazie di tutto, Fenomeno.

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