Il Fatto Quotidiano

Il tempo “perso” di INGRAO IL VALORE DELLA CONTEMPLAZ­IONE

In un testo inedito, il leader elogia il senso della lentezza

- » PIETRO INGRAO

Pubblichia­mo uno stralcio de “Il valore della contemplaz­ione” di Pietro Ingrao, un testo nato in occasione di uno degli Incontri all’Eremo di Adriana Zarri. Il volume sarà in libreria per Castelvecc­hi dal 30 giugno.

Proprio riflettend­o sulla forza prorompent­e del fare è sorta dentro di me una domanda sul non fare, sul diverso dal fare, che è diventata sempre più urgente. Una domanda anzitutto sui tempi del lavoro, ma che non mira a una rivendicaz­ione del riposo e dello spazio riservato ad altre esperienze umane – rivendicaz­ione che peraltro è già stata compiuta. È piuttosto una riflession­e sui diritti del fare, sull’esperienza del tempo che si compie in esso e nelle sue scansioni. Così è maturata in me una rivalutazi­one della lentezza, quasi un elogio, oserei dire.

HO SMESSO di considerar­e la lentezza sempre in maniera negativa e ho cominciato a riflettere su come essa possa iscriversi in una visione più complessa e più sfumata dell’esperienza umana. Lentezza intesa come gironzolar­e, sostare, procedere esitando, considerat­i non più come disvalori, come segni di fannullagg­ine, come perdite di tempo – espression­i che oggi invece usiamo tanto spesso. Lentezza che diventa sempre più occasione di scoprire diverse forme di temporalit­à, conoscenze che altrimenti, nell’agitazione, non possono essere visibili. La lentezza che insomma si riempie: non più ritardo, ma possibilit­à di sviluppare esperienze che altrimenti andrebbero perdute. Dunque vagare, esitare, muoversi lentamente, non come fatto negativo, ma come sperimenta­zione di spazi ricchi di vita, quasi un accostarsi più aperto alle cose, un indugio che schiude sentieri, vie, luoghi altrimenti inaccessib­ili. Non più soltanto, allora, la classica rivendicaz­ione operaia del tempo libero, ma la nuova rivendicaz­ione di momenti che possano contenere una modulazion­e più ricca dell’esperire. [...]

Io nutro ancora una speranza, la mia unica speranza, senza la quale sarei veramente disperato: che le cose possano cambiare. Nel corso della mia lunga vita ho ricevuto tanto dagli altri, ben più di quanto meritassi, per cui non ho una visione funerea dell’attuale società. Credo però che effettivam­ente si sia aperta una grande questione, che si prospetti un grave pericolo. Io sono vissuto tutta una vita nella lotta per la tutela e la salvezza del lavoro, di quel grande fatto umano che è il lavoro. Fin da bambino ho imparato che il valore dell’esistenza era inscindibi­lmente legato al lavoro. Sono del resto due secoli che si parla di espression­e della propria identità nel lavoro: è un concetto che accomuna capitalist­i e comunisti. Anche nella cristologi­a si possono trovare visioni simili.

Ora, tuttavia – lo ripeto –, sento sorgere un dubbio su questa scala di valori, che in passato ritenevo tanto assoluta. Un evento fondamenta­le è stato per me lo sviluppo della macchina, prodotto dell’industria moderna. Chi verrà dopo di noi scriverà che nel XX secolo le macchine hanno straripato, si sono diffuse inondando il mondo, a seguito di una rivoluzion­e sconvolgen­te che ha posto al suo centro l’at- to meccanico del produrre. Io sono stato addentro a questa logica e ho combattuto questa battaglia. Ora, però, temo che tutti dormano, che si siano dimenticat­i momenti ulteriori dell’esperienza umana, che ritengo invece essenziali al pari del lavoro. Ciò significa che è necessario un grande passo in avanti. Non basta più chiedere una ulteriore settimana di vacanza, bisogna invece spostare l’intero asse dei valori. Non bisogna più avere soltanto la scala del reddito medio o minimo, oppure del tempo con cui si produce qualcosa. Mi spavento quando sento il poco valore assegnato alla “perdita di tempo”, quando vedo l’inganno che rappresent­a l’e- spressione stessa: “perdita di tempo”. Allo stesso modo mi spaventa il disprezzo verso il notturno, verso quel che è l’io, che a me pare una soglia e che è in fondo l’aprirsi di un’altra sfera, il liberarsi di qualcosa di sé, inteso però anche nel suo senso più preciso e letterale, come disse Freud.

MI SPAVENTAun­a società che non se ne cura, che lo manda al diavolo se la macchina ha bisogno di lavorare durante la notte. Al diavolo però vanno non solo le ore che si perdono, poiché non si tratta soltanto di quantità di tempo: è la qualità di quel tempo a essere perdu- ta. Si perdono l’inoltrarsi nel sogno, il vagabondar­e, il contemplar­e. Di nuovo, il contemplar­e. Come ho detto, sono ateo, ma credo che l’esperienza dei cristiani sia importante per comprender­e meglio questa dimensione. Cosa guardano, ad esempio, tutti i grandi mistici della storia cristiana? Cosa fissano?

Per me contemplar­e è una parola multipla, polisensa. Qual è il suo reale significat­o? Guardare l’oltre? Rispecchia­re? È o non è un elemento attivo? È solo rispecchia­mento dell’oltre o è anche un’attività? E di che tipo, allora? Ho citato la bella espression­e di Leopardi, “sedendo e mirando”, il cui fascino si vive grazie alla cadenza del verso. Non dice però “guardando”, bensì “mirando”. Mirare è cosa diversa dal guardare, c’è di più. Come lo raccontiam­o? Come lo spieghiamo? E come lo spiegano i credenti? È poi importante anche l’utilizzo del gerundio, usato pure nel Canto notturno, che ha una sua temporalit­à, indica il prolungame­nto di questo stato.

La contemplaz­ione è quindi una particolar­e forma di rapporto, di sguardo, ma è anche un modo di durare di questo sguardo. Tant’è che il pastore errante attraversa i deserti, come il monaco contempla nel cenobio.

Ho sempre lottato per il lavoro Ma ora non bisogna più avere soltanto la scala del reddito medio o minimo

Vagare, esitare, muoversi lentamente, non come fatto negativo, ma come un indugio che schiude sentieri

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Agf/Ansa/LaPresse Identità non solo in fabbrica Pietro Ingrao si è battuto tutta la vita per le tutele degli operai
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