Il Fatto Quotidiano

Quel giorno a Sloviansk nella trappola dell’odio

Il racconto delle barricate e dei cecchini nella città dove sono stati uccisi Andrea e Andrej

- » MICHELA A. G. IACCARINO

Hotel

Slavjansk. L’hotel si chiamava proprio come la città sotto assedio. Primo piano, ogni mattina presto, avevamo appuntamen­to per colazione ai tavoli di legno. Il 24 maggio con la tazza di te tra le mani, Andrej Mironov disse “as co lt a” e guardò fuori dalla finestra. Il konzert, come i soldati chiamavano i bombardame­nti, era iniziato nelle ore di luce, senza aspettare il coprifuoco, al primo buio. Quello fu il giorno in cui la guerra cambiò e Andrej se ne accorse per primo: “Bombardano con gli obici, questi non sono mortai, hanno cambiato artiglieri­a, strategia”.

Alcuni di noi si diressero verso la barricata Simonivka, Andrej e Andy Rocchelli verso la zona di Andreevka, dove si faceva tiro a bersaglio con i vecchi vagoni del treno. Uomini, donne e bambini dor- mivano già da settimane nei podval, nelle cantine, insieme alle scorte di cibo, tra pareti di cetrioli in salamoia e paure illuminate al neon. Erano i soggetti delle foto di Andy. In quei giorni, tra un fosso lasciato da una granata e l’altra, rimaneva la strada ancora percorribi­le, scorreva la vita che si poteva ancora vivere.

ERA COMINCIATO TUTTO il 2 maggio a Jasnogorsk­aja, confine sud di Slavjansk, sul ponte che erano appena arrivati a presidiare le divise ucraine. Quel giorno chiesi al soldato che parlava italiano con accento romano quale fosse la sua città natale e il nome. Rispose “Vitaly, Rimini”. Disse di aver lasciato la Folgore ma non la carta d’identità italiana, quando Maidan era diventata il nome di una generazion­e in lotta e smise di essere quello di una piazza. Imbracciav­a il fucile come tutti gli al- tri uomini in fila “per il destino della nuova Ucraina”. Alla fine di quel maggio la frase che era sulle labbra di tutti, bandiera diversa e stessa lingua russa, era: “Noi siamo pronti a tutto, loro sono pronti a tutto. Von otsjuda, vattene da qua”.

Il ghiaccio era diventato fango e melma sul cemento, paura e sudore sulla pelle di chi non era scappato. “Lo sanno tutti, chi vincerà a Slavjansk, vincerà la guerra”. Il nome di Slavjansk deriva da slava, gloria. Lo dicevano con entusiasmo grottesco in quel posto diventato la camera stagna tra Ucraina e Russia. Donetsk era la capitale del Donbas, ma la prima battaglia per la sua indipenden­za è stata combattu- ta in quella cittadina ai piedi della collina dell’antenna tv, dove gli ucraini sparavano sempre dall'alto verso il basso. Quell’altura si chiamava Karachun, come la morte nera delle feste pagane slave.

OGNI STRADAera un rosario di controlli: permesso, passaporto, indice della mano destra, bagagliaio. Le bombe erano karova o krokodil , “mucca” o “cocc od ri ll o” e con questi soprannomi erano più facili da distinguer­e tra il fischio del lancio e l’onda d’urto. Alla barricata filorussa di Simonivka, all’incrocio delle strade che conducevan­o da Donetzk a Kharkov, sul muro di protezione della trincea c’era scritto “per informazio­ni chiamare il 666”. Un busto di Lenin con la testa bucata prendeva sole e pallottole di chi sparava dall’altro lato per l’in d i pe n d en z a di Kiev.

Quando tornammo da Simonivka quel giorno la stanza 213 all’hotel Slavjansk rimase chiusa. Il 25 maggio, da New York a Roma fino a Mosca, la faccia dei due Andea sarebbe stata stampata su tutti i giornali, come una lapide di carta in prima pagina. Quel giorno il re del cioccolato Petro Poroshenko, tra lacrime dentro il Parlamento, sputi e fischi a Maidan, fu proclamato il nuovo presidente dell'Ucraina di guerra.

Tiro al bersaglio Sfida continua ad attraversa­re i punti nevralgici sotto la mira dei miliziani dei due fronti

 ??  ?? Destino comune Andrej Mironov e Andrea Rocchelli in una foto commemorat­iva Ansa
Destino comune Andrej Mironov e Andrea Rocchelli in una foto commemorat­iva Ansa

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy