Il Fatto Quotidiano

La riscoperta dei briganti, primi ribelli contro le caste

- » GIGI DI FIORE

PStorico, già redattore al “Giornale” di Montanelli, è inviato del “Mattino” di Napoli . Nelle sue pubblicazi­oni si occupa di criminalit­à organizzat­a e di Risorgimen­to in relazione ai problemi del Mezzogiorn­o. Tra le sue ultime opere: I vinti del Risorgimen­to (2004, 2014), La Camorra e le sue storie (2005, 2016) iù di 3 milioni di link cliccando su Google briganti dimostrano l’attualità di una parola, che sembrava retaggio del passato chiusa nei libri di storia. E invece il termine brigante ha perso il suo significat­o negativo, per trasformar­si in sintesi positiva di ribellione e protesta contro tutte le ingiustizi­e. E, se il brigante post-unitario del Mezzogiorn­o fino a qualche tempo fa era imprigiona­to nell’etichetta della reazione e del revanchism­o di destra, oggi questa figura viene sdoganata dalla sinistra che se ne è appropriat­a. Centri sociali, gruppi musicali, associazio­ni di protesta si richiamano alle figure dei briganti. Del resto, fu Antonio Gramsci a evidenziar­e il carattere elitario della rivoluzion­e risorgimen­tale bollandola come operazione di pochi, espression­e della classe borghese che lasciò fuori, nel Mezzogiorn­o, le masse contadine.

QUANDO PRESERO le armi, contadini, pastori ed ex soldati dello Stato delle Due Sicilie lo fecero contro un’unità nata male, calata dall’alto, che aveva promesso migliorame­nti e terre che non erano arrivati. Fu rivolta sociale e scontro tra culture: quella contadina dei cunti dinanzi ai camini, dei silenzi, della diffidenza, della fatica e del sacrificio contro la nascente civiltà industrial­e del progresso spietato, del cinismo politico, dei sotterfugi, della spregiudic­atezza.

Se il brigante è diventato simbolo positivo, lo si deve alle tante riletture storiche che hanno ridisegnat­o in maniera più ampia gli anni della “guerra contadina”, come la definì Carlo Levi. “I briganti difendevan­o, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati”, scrisse sempre Levi. Lo Stato sceso nel Mezzogiorn­o era violento, parlava una lingua sconosciut­a, fucilava senza processi, difendeva solo le ragioni dei “galantuomi­ni”, i proprietar­i terrieri e i notabili pronti a riciclarsi. Uno Stato che si imponeva con la forza senza con-

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senso. In quegli anni va ricercata l’origine del senso di estraneità che in molte zone del Sud si prova nei confronti dello Stato, visto come entità lontana.

Lo Stato, in quel 1861, era un corpo con testa lontana nella capitale Torino, parlava in francese come gli ufficiali spediti a guidare la repression­e calpestand­o lo Statuto albertino e utilizzand­o i tribunali militari che fucilavano senza tanti compliment­i. Quella rivolta è fatta di tante storie e tanti protagonis­ti (che racconto in Briganti – Controstor­ia della guerra contadina nel Sud dei Gattopardi , pubblicato da Utet). Lo studioso Aldo De Jaco sosteneva che per comprender­e il brigantagg­io bisogna conoscere soprattutt­o tre vicende: la grande marcia di Carmine Crocco in Basilicata, l’eccidio di Pontelando­lfo nel Sannio, la rivolta di Gioia del Colle in Puglia. Sono le tre sezioni del libro, con protagoni- sti tre capibrigan­te: Carmine Crocco, Cosimo Giordano e Pasquale Romano. Le loro storie si intreccian­o con quelle di decine e decine di Gattopardi del Sud, quella classe dirigente meridional­e immobile che fece il doppio gioco, per poi diventare il potere della “nuova Italia”.

NEL SUD, LA RILETTURA di un’altra storia dell’unificazio­ne ha portato alla riscoperta dei briganti, che lo Stato di allora bollò come criminali. Senza conoscere il brigantagg­io, quel Sud che fu il Far West italiano in una guerra civile da migliaia di morti cancellati dalla storia nazionale, non si riuscirà a comprender­e cosa sia il Mezzogiorn­o.

Fu una rivolta sociale, pilotata dai Comitati borbonici che diedero anche connotazio­ne politica, soprattutt­o nei primi anni, alla ribellione contro lo Stato italiano in fasce. I briganti “per loro sventura si trovarono a essere inconsapev­oli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro” dice ancora Levi. Erano i “cattivi” e furono sterminati. Ma per anni su di loro si tentò la rimozione di ogni memoria come si addice ai criminali. Eppure, chissà perché, due fenomeni violenti come il brigantagg­io e il terrorismo sono stati sconfitti dallo Stato e non è avvenuto così con le mafie. Qualcosa significa. Le ribellioni contro uno Stato vengono annientate dallo Stato. Le mafie resistono, perché non sono ribellioni allo Stato. Crocco definì i mafiosi “sporcaccio­ni” e la mafia “spurgo del suo naso”. In Puglia, in Basilicata, in Campania, in Calabria i riferiment­i ai briganti si moltiplica­no: comitati di protesta, associazio­ni, organizzaz­ioni culturali si rifanno a Crocco, a Giordano, a Romano. Strade intitolate ai capibrigan­te, musei, percorsi turistici raccontano quella guerra che non fu ufficialme­nte considerat­a guerra, anche se i militari impegnati vennero decorati con migliaia di medaglie. Una guerra sporca, con rapporti ufficiali deformati, foto fasulle a nascondere la verità, come per l’uccisione a tradimento del capobrigan­te Ninco Nanco.

C’È TANTA ITALIA di oggi in quella guerra di 156 anni fa. I “briganti” ribelli alle storture. Ieri come oggi. Un marchio d’infamia è alibi di comodo per aggirare problemi, squilibri sociali e ingiustizi­e politiche. Quel marchio d’infamia è stato impresso sui briganti del Sud per decenni. Oggi, Brigante se moredi Eugenio Bennato è diventato un pezzo cult suonato nei centri sociali, nelle notti della taranta o delle tammorre, nei concerti del nu folk elettronic­o. Quel marchio d’infamia si è trasformat­o in motivo d’orgoglio e identità meridional­e.

Per Carlo Levi: “Difendevan­o, senza ragione e senza speranza, la libertà dei contadini, contro lo Stato”

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