Il Fatto Quotidiano

Egitto, dove si contano cinque Regeni al giorno

Al Cairo Chiunque si oppone ai militari finisce in carcere o sparisce: è noto a tutti. Ogni cosa è sotto controllo, non ci sono regole certe, vince solo la perenne e diffusa paura

- » FRANCESCA BORRI

Chiunque si oppone ad al-Sisi, qui, finisce in carcere, o sparisce: è noto a tutti. Ma è come se fosse normale. Gli ultimi studi dei centri di ricerca internazio­nali sono vecchi di anni. Non si trova più neppure la Lonely Planet. L’Egitto, in questo momento, non interessa a nessuno. Turisti, analisti, giornalist­i: sono andati via tutti.

Tornare al Cairo è triste. Nel 2011 i ragazzi di piazza Tahrir erano un esempio per i ventenni di tutto il mondo: persino per gli americani, che per una volta si ispirarono agli arabi, e occuparono Zuccotti Park. Si veniva qui, e ci si ricaricava di energia, creatività. Coraggio. Oggi piazza Tahrir non è più neppure una piazza. Per intralciar­e le manifestaz­ioni, è stato costruito un po’ di tutto, muretti, pilastri, sfiati d’aria del nuovo parcheggio sotterrane­o. Barriere di ogni tipo. Dai blindati, tiratori scelti presidiano le strade di accesso. Mentre un drone sorveglia il resto. Non è rimasto più niente di quei momenti. Gli egiziani ti guardano stanchi. E preoccupat­i. Giornata nera?, azzardo a un uomo che ha un chiosco di arance. “Vita nera”, dice.

E questo, nel Cairo di al-Sisi, è il massimo delle conversazi­oni possibili. Hanno tutti paura. Paura non solo di protestare: paura di parlare. L’omicidio di Giulio Regeni ci ha lasciato allibiti: ma nel 2016, in Egitto sono svaniti nel nulla cinque Regeni al giorno. In Egitto, la ferocia è prassi. Capita, per strada, che la polizia trascini via qualcuno a manganella­te. Ma si tira dritto. Si finge di non vedere. “Va tutto bene”, mi dice un antiquario della città vecchia. “E come altro potrebbe andare?”, dice. “Va tutto bene. Tutto benissimo”.

ESTERIORME­NTE, il Cairo è uguale a sempre. Tutti i paesi vicini, in questi anni, sono molto cambiati, il Medio Oriente ha una popolazion­e giovane e in crescita, è tutto gru e cantieri: torni, ogni volta, ed è tutto così diverso che ti perdi. Qui, invece, è tutto fermo. Tutto immobile. Qui ogni cosa è come era. Centinaia di famiglie abitano ancora nelle tombe del cimitero, mentre poco più su, sulla collina di Mokattam, i cristiani Zabbalin ancora vivono frugando nella spazzatura, tra i selfie di un gruppo di francesi – perché la povertà, qui, è così irrimediab­ile da essere parte del paesaggio: non è un’emergenza sociale, è un’attrazione turistica. Non c’è traccia di un investimen­to pubblico.

Il Cairo ha 18 milioni di residenti, e ancora non ha una rete di trasporti. Molti ancora non hanno l’acqua corrente. Anche se non è come sembra: il Cairo non è uguale a sempre, per niente. Ora la classe media non esiste più: e su 93 milioni di egiziani, non solo il 27 percento è sotto la soglia di povertà, ma un altro 60 è a rischio povertà. Mentre i ricchi sono sempre di meno, ma sempre più ricchi: il nuovo Mall of Egyptha anche una pista da sci.

Perché al-Sisi, in realtà, è lautamente sostenuto dai paesi del Golfo. Da quando è al potere, l’Egitto ha avuto oltre 50 miliardi di dollari. Le sue riserve, intanto, sono diminuite di 31 miliardi, e il suo debito è aumentato di 21 miliardi. 102 miliardi di dollari, in tutto. Dove sono finiti?

E neppure la repression­e, in realtà, è come ai tempi di Mubarak. Perché con Mubarak le regole, per quanto brutali, erano chiare. Oggi, invece, come Giulio Regeni, si finisce tra faide tra forze di sicurezza rivali. Oggi, in Egitto, la polizia spara per niente. Per 3 dollari e 83 centesimi, come il tassista ucciso nel febbraio del 2016, per un diverbio sul prezzo della corsa. O anche per meno: per 40 centesimi. Per un diverbio sul prezzo di un tè, come l’ambulante ucciso ad aprile del 2016. E il controllo sulla società è totale.

Il 29 maggio è stata infine approvata la legge sulle ONG. Ora ogni associazio­ne non solo è tenuta a registrars­i, e sot- toporsi alla vigilanza dell’intelligen­ce: ogni attività deve inserirsi nei piani di sviluppo decisi dallo stato.

OGNI ATTIVITÀ, cioè, deve essere una attività sociale. Non politica. Ed è necessaria un’autorizzaz­ione sia per lavorare sul campo sia per pubblicare rapporti. O forse per pubblicare, in assoluto: è inutile, qui, tentare di leggere un giornale. Al-Jazeera, Huffington Post, Mada Masr, che è la principale testata dell’oppo- sizione: su internet è tutto bloccato. Non compare che uno schermo bianco.

Né è semplice chiedere direttamen­te agli attivisti: sono i soli per cui davvero, qui, non è cambiato niente. Il più noto è Alaa Abd el-Fattah. Ha 36 anni. È stato arrestato prima da Mubarak, poi dall’esercito. Poi dai Morsi. E adesso da al-Sisi. Sono tutti o in carcere o in esilio.

Non è rimasta che una città di mendicanti. Uomini e donne per cui ogni spicciolo è fon- damentale, ora che l’inflazione è al 30%. Con i paesi del Golfo in crisi, infatti, al-Sisi è stato costretto a chiedere 12 miliardi di dollari al Fondo Monetario, che ha imposto in cambio le sue solite misure di austerità.

A NOVEMBRE, la lira egiziana è stata svalutata: ed è stato drammatico per un paese che dipende dalla importazio­ni, soprattutt­o di beni alimentari. Per il 94%, l’Egitto non è che sabbia. E quindi, è vero, la povertà al Cairo è atavica: ma nel Cairo di al-Sisi, a colpirti sono quelle che un tempo invece erano aree borghesi. Zamalek, con il suo verde e le sue ambasciate. Maadi. Heliopolis. L’intera città non è adesso che una colata sterminata di

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