Il Fatto Quotidiano

Chi ci autorizza a dare sempre del tu a chi ha la pelle più scura?

Non si può discutere di ius soli se non siamo ancora in grado di dare pari dignità formale al saluto che rivolgiamo a un venditore di rose e a un notaio

- » LUCA SOMMI

La voce della cassiera del supermerca­to è dolce nei suoni, sorride: “Buongiorno, ha la tessera fedeltà? Vuole anche un sacchetto?”. Quando esce lo scontrino lo porge con delicatezz­a: “Arrivederc­i e grazie”. Mentre siamo concentrat­i a dar forma compiuta a tal sacchetto, però, l’orecchio corre di nuovo alle parole dell’amabile cassiera: “Ciao, paghi in contanti? Vuoi il sacch etto ?”. Alzando gli occhi notiamo che il cliente dopo di noi non è italiano, è un signore sui cinquanta, distinto, che a prima vista potrebbe sembrare nordafrica­no. A parte il diverso trattament­o sostanzial­e – chiedere di primo acchito la tessera fedeltà a noi e i contanti a lui – è impossibil­e non notare anche quello formale: il “lei” a noi, il “tu” a lui.

Domanda: perché l’amabile cassiera ha fatto questa differenza dopo una semplice e rapida valutazion­e visiva? Risposta: perché il colore della pelle di quel signore non rientra in quella platonica media nazionale che lei deve avere in testa, mentre la nostra sì. Ergo: lui non è come “noi”. E, badateci, la stessa cosa capita nei più disparati contesti, a partire da come viene liquidato il venditore di rose. Un atteggiame­nto che non va relegato in quel miserabile mondo tribale e proto-razzista di certo politicume nostrano, quello che del vasto e meraviglio­so mondo conosce a malapena la propria casa e il proprio garage. No, qui parliamo di qualcuno che, a occhio e croce, mai direbbe o farebbe cose simili alla paccottigl­ia di umanesimo detta sopra. Al massimo ci troviamo di fronte a chi è solitament­e avvezzo al contrario, all’am mir azio ne mista invidia che il servo ha per colui che riconosce come padrone, e che qui, seppur inconsciam­ente, magari se la scrolla di dosso per un istante.

PERÒ, visto che siamo arrivati finalmente anche noi a tessere un ragionamen­to sullo ius soli, dovremmo anche, prima antropolog­icamente che culturalme­nte, stare a distanze siderali da tutto ciò che anche solo vagamente puzzi di ventennio mussolinia­no, epoca in cui nei film colonialis­ti si dava del “lei” ai bianchi e “tu” ai neri – film nei quali si usava il pomposo e servile Voi maiuscolo con i capi mentre l’ascaro lo si trattava sempre e solo con il tu, spesso facendogli chiudere la frase con l’ignobile sì badrone. E se oggi si parla di dare cittadinan­za italiana a chi nasce in questo Paese, ancor di più dovremmo superare queste miserie, che – si badi – non sono solo formali: quel “tu” a rapida contemplaz­ione visiva contiene qualcosa di sostanzial­e. Perché, si sa, di leggerezza in leggerezza ci vuole poco poi ad arrivare a dire cose peggiori, con la benedetta congruenza tra morale privata e pubblica che va a farsi benedire. Riflession­e: se non siamo ancora in grado di dare pari dignità formale al saluto che rivolgiamo a un venditore di rose e a un notaio, allora significa che siamo ancora quell’Italia conformist­a (e un po’ fascista) in cui vengono meno gli elementi costitutiv­i di ciò che chiamiamo società.

Dunque amabile cassiera, da domani provi a dare del lei a chiunque si avvicini per pagare la spesa, di qualsiasi tonalità epidermica sia. Vedrà come ci si sente bene nel vasto e meraviglio­so mondo. Più che in un angusto e putrido garage.

Non sottovalut­are Di leggerezza in leggerezza ci vuole poco, poi, ad arrivare a dire cose assai peggiori

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Ansa Il cliente e la cassiera ”Buongiorno vuole il sacchetto” a me “Cia, vuoi il sacchetto” a lui
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