Il Fatto Quotidiano

“Finalmente lo stabilisce anche un tribunale: in Italia la schiavitù esiste”

Il leader dello sciopero dei braccianti esulta per la prima sentenza sul caporalato

- » TOMMASO RODANO

“Riduzione in schiavitù”. Sono le tre parole che compaiono accanto alla prima storica sentenza sul caporalato in Italia. Ieri a Lecce sono stati condannati in primo grado quattro imprendito­ri salentini e nove caporali africani. Tra di loro c’è il “re delle angurie” Pantaleo Latini insieme ad altri nomi noti dell’agricoltur­a locale: la sentenza è di 11 anni di carcere. Erano stati arrestati nel 2012: cinque anni dopo, per la prima volta, un tribunale stabilisce che nelle nostre campagne esiste la schiavitù.

L’inchiesta Sabr che ha portato a queste condanne è stata possibile anche grazie a un ragazzo camerunens­e, che raccogliev­a pomodori per pagarsi l’università in Italia. Nel 2011, tra le baracche della masseria Moncuri di Nardò (Lecce) si mise a capo del primo sciopero dei braccianti stranieri. Si chiama Yvan Sagnet. L’anno scorso Sergio Mattarella l’ha nominato Cavaliere della Repubblica. Oggi è raggiante: “Questa è la storia di 700 lavoratori stranieri che non avevano nulla, e dal nulla hanno preso coscienza dei loro diritti. Nelle campagne salentine, come in quelle di tutta Italia, si assisteva e si assiste ancora a una violenza senza limiti. Oggi abbiamo una prima vittoria”. Quali sono le violenze emerse nel processo?

Non solo una paga ridicola per un lavoro massacrant­e, ma una serie di soprusi disumani. I braccianti non potevano portare l’acqua con sé, erano costretti a pagare una bottiglia al caporale oppure a bere quella sporca dei pozzi. Chi si ammalava in campagna, per essere portato al pronto soccorso in città doveva pagare il trasporto al caporale. Soprattutt­o gli stranieri irregolari erano sottoposti a angherie fisiche e verbali particolar­mente intense, da cui non si potevano ribellare. Tutto praticamen­te sot- to gli occhi delle istituzion­i e delle forze di polizia.

La sentenza Sabr è un primo riconoscim­ento, ma il regime di schiavitù nei campi resta. Come si combatte? Non ci si deve rassegnare a promuovere la legalità. L’anno scorso è stata approvata una legge sul caporalato che è incompleta, ma è comunque uno strumento che può aiutare la magistratu­ra. Serve una vera azione repressiva nei confronti di chi sfrutta il lavoro in modo illegale. Poi ci vorrebbe uno scarto culturale.

Quale?

La schiavitù dipende dal mercato. Ci vorrebbe un mercato diverso, una filiera alternativ­a. I caporali sono l’anello debole di questo processo. Il “generale”, l’anello forte, è la grande distribuzi­one. Se le catene impongono ai produttori un prezzo ridicolo sui generi alimentari, loro per sopravvive­re scaricano tutto sul costo del lavoro. Bisognereb­be tracciare i prodotti: oltre ai certificat­i biologici, servirebbe­ro quelli etici. Questo è il lavoro che sto facendo con l’associazio­ne No Cap: pro- muovere chi fa agricoltur­a senza sfruttamen­to. La qualità del prodotto conta quanto la qualità del lavoro.

Ci vorrebbe un mercato diverso, una filiera alternativ­a: oltre alla certificaz­ione biologica dei prodotti ci vorrebbe quella etica

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Sfruttati Un campo di pomodori
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