“Finalmente lo stabilisce anche un tribunale: in Italia la schiavitù esiste”
Il leader dello sciopero dei braccianti esulta per la prima sentenza sul caporalato
“Riduzione in schiavitù”. Sono le tre parole che compaiono accanto alla prima storica sentenza sul caporalato in Italia. Ieri a Lecce sono stati condannati in primo grado quattro imprenditori salentini e nove caporali africani. Tra di loro c’è il “re delle angurie” Pantaleo Latini insieme ad altri nomi noti dell’agricoltura locale: la sentenza è di 11 anni di carcere. Erano stati arrestati nel 2012: cinque anni dopo, per la prima volta, un tribunale stabilisce che nelle nostre campagne esiste la schiavitù.
L’inchiesta Sabr che ha portato a queste condanne è stata possibile anche grazie a un ragazzo camerunense, che raccoglieva pomodori per pagarsi l’università in Italia. Nel 2011, tra le baracche della masseria Moncuri di Nardò (Lecce) si mise a capo del primo sciopero dei braccianti stranieri. Si chiama Yvan Sagnet. L’anno scorso Sergio Mattarella l’ha nominato Cavaliere della Repubblica. Oggi è raggiante: “Questa è la storia di 700 lavoratori stranieri che non avevano nulla, e dal nulla hanno preso coscienza dei loro diritti. Nelle campagne salentine, come in quelle di tutta Italia, si assisteva e si assiste ancora a una violenza senza limiti. Oggi abbiamo una prima vittoria”. Quali sono le violenze emerse nel processo?
Non solo una paga ridicola per un lavoro massacrante, ma una serie di soprusi disumani. I braccianti non potevano portare l’acqua con sé, erano costretti a pagare una bottiglia al caporale oppure a bere quella sporca dei pozzi. Chi si ammalava in campagna, per essere portato al pronto soccorso in città doveva pagare il trasporto al caporale. Soprattutto gli stranieri irregolari erano sottoposti a angherie fisiche e verbali particolarmente intense, da cui non si potevano ribellare. Tutto praticamente sot- to gli occhi delle istituzioni e delle forze di polizia.
La sentenza Sabr è un primo riconoscimento, ma il regime di schiavitù nei campi resta. Come si combatte? Non ci si deve rassegnare a promuovere la legalità. L’anno scorso è stata approvata una legge sul caporalato che è incompleta, ma è comunque uno strumento che può aiutare la magistratura. Serve una vera azione repressiva nei confronti di chi sfrutta il lavoro in modo illegale. Poi ci vorrebbe uno scarto culturale.
Quale?
La schiavitù dipende dal mercato. Ci vorrebbe un mercato diverso, una filiera alternativa. I caporali sono l’anello debole di questo processo. Il “generale”, l’anello forte, è la grande distribuzione. Se le catene impongono ai produttori un prezzo ridicolo sui generi alimentari, loro per sopravvivere scaricano tutto sul costo del lavoro. Bisognerebbe tracciare i prodotti: oltre ai certificati biologici, servirebbero quelli etici. Questo è il lavoro che sto facendo con l’associazione No Cap: pro- muovere chi fa agricoltura senza sfruttamento. La qualità del prodotto conta quanto la qualità del lavoro.
Ci vorrebbe un mercato diverso, una filiera alternativa: oltre alla certificazione biologica dei prodotti ci vorrebbe quella etica