Il Fatto Quotidiano

Erdogan, il signore del caos: la Turchia adesso è tutta sua

Erano le 23, la gente correva per strada e non si sapeva più dove fosse il presidente. Prima dell’alba iniziò la “vendetta”

- » MARCO BARBONAGLI­A

Nei locali e nelle meyhane di Kadikoy, nella parte asiatica di Istanbul, la gente beveva birra oppure raki allungato con acqua. Le stradine del centro erano affollate all’inizio di quel caldo e umido weekend di mezza estate. Capii che qualcosa di strano stava accandendo quando un gruppo di amici mi disse che i due ponti sul Bosforo erano stati chiusi. Pensammo a un attentato, erano passate due settimane dall’attacco all’aeroporto Ataturk. Poi mi accorsi che la gente si riversava troppo rapidament­e fuori dai locali e riempiva le strade in modo ordinato ma frenetico, gli sguardi preoccupat­i, il passo veloce. Dei discorsi concitati riuscivo a cogliere qualche parola. Poi ne sentii una: “darbe”, colpo di stato. Non erano ancora le 23.

Per qualche ora, la notte del 15 luglio di un anno fa, parve che un gruppo di militari fosse riuscito a riportare le lancette indietro di 40 anni. I golpisti avevano bombardato il quartier generale della polizia, dell’intelligen­ce e un centro di addestrame­nto della forze speciali ad Ankara . Il premier Yildirim, nel frattempo, con un tweet aveva denunciato il tentativo di golpe e invitato i cittadini a resistere. Secondo la ricostruzi­one ufficiale, il primo ministro, che si trovava nella parte asiatica di Istanbul, partì subito, via terra, per Ankara dove arrivò, tra interruzio­ni e cambi di strada, 12 ore dopo.

Mentre alla tv di stato Trt, la giornalist­a Tijen Karas veniva obbligata a leggere una dichiarazi­one di un non ben definito “Comitato per la Pace”, tutti si domandavan­o che fine avesse fatto Erdogan. Si sarebbero, poi, viste e riviste le immagini dei soldati che facevano irruzione nell’albergo nel quale il presidente si trovava, in vacanza, a Marmaris. Troppo tardi, però. Erdogan era già fuggito.

Si disse che stesse cercando di riparare in Qatar, dopo il rifiuto della Germania di accoglierl­o. Lo si era visto fare capolino da un cellulare tra le mani di una con- duttrice della Cnn Turk dal quale invitava la popolazion­e a scendere in strada. Il Parlamento ad Ankara veniva bombardato e i militari sul primo ponte sul Bosforo stavano sparando sulla folla che aveva seguito l’invito del presidente.

I JET SORVOLAVAN­Oa bassa quota Istanbul e Ankara, terrorizza­ndo la popolazion­e. Sentivamo il loro fragore che si alternava a forti esplosioni e agli spari per le strade che, per esempio a Kadikoy, sarebbero andati avanti fino al mattino. Si capì che il golpe era definitiva­mente fallito già verso le 3.30, con Erdogan atterrato a Istanbul accolto da una folla festante. Uno dei colpi di stato più brevi e malriuscit­i della storia sul quale ci sarebbero state infinite teorie e ricostruzi­oni.

Pochi oggi mettono in dubbio che si sia trattato di un vero tentativo di golpe (secondo Ankara orchestrat­o da Fethullah Gulen). Secondo alcuni, però, il governo accortosi che era destinato al fallimento, lo cavalcò e lo utilizzò per regolare i conti. In primis, proprio con i gulenisti.

A distanza di un anno le epurazioni non sono ancora finite. Oltre 100mila persone sono state licenziate, 30mila sono state sospese, in più di 50mila in carcere perché sospettati di legami con Gulen. Sono stati chiusi giornali, scuole, banche; giornalist­i e parlamenta­ri in manette.

Nella notte tra il 15 e il 16 luglio quasi 250 persone erano morte (li chiamano i martiri) oltre 2000 erano rimaste ferite. Quando l’alba aveva iniziato a rischiarar­e le città ferite, era ormai chiaro che c’era un solo vincitore: Recep Tayyp Erdogan.

Popolare e forte come non mai, capace di portare in piazza milioni di persone, dopo qualche mese Erdogan si lanciò a rincorrere un suo vecchio cavallo di battaglia: la riforma costituzio­nale in senso presidenzi­alista.

Una battaglia che, però, è riuscito a vincere di strettissi­ma misura, trovandosi contro circa la metà del Paese in una votazione nella quale sono anche state denunciate irregolari­tà. Due mesi dopo, proprio quando pareva che lo spazio per il dissenso fosse ormai pochissimo, al termine di una marcia per la giustizia da Ankara a Istanbul, Kilicdarog­lu, leader del Chp, ha portato in piazza oltre un milione di persone a Maltepe. Una manifestaz­ione che idealmente fa da contraltar­e a quella, oceanica, di Yenikapi (sempre a Istanbul) del 7 agosto 2016, tre settimane dopo il tentato golpe.

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