“Minacce a cronisti e giudici, Cosa nostra sta rialzando la testa”
Piergiorgio Morosini Già pm a Palermo e oggi membro del Csm: “I clan hanno la necessità di riaffermare la presenza sul territorio”
Piergiorgio Morosini, consigliere togato al Csm ( Area, sinistra) ha chiesto in Plenum di inviare una delegazione di Palazzo dei Marescialli a Palermo, preoccupato di una serie di fatti, emblematici di un’alzata di testa di Cosa Nostra. La sua analisi è frutto di un’esperienza ventennale, come giudice antimafia a Palermo. Tanti i processi di cui si è occupato, l’ultimo, come gip, prima di essere eletto al Csm, quello sulla Trattativa. Consigliere che sta succedendo?
C’è stato un segnale bruttissimo la settimana scorsa di una minaccia a un gip (Nicola Aiello, ndr), titolare di un processo che si occupa delle attività criminali di un importante mandamento mafioso che ha la sua base territoriale nel centro di Palermo, Borgo Vecchio. Colpisce che la minaccia si stata recapitata direttamente sulla porta dell’uffi cio all’interno del palazzo di Giustizia ( una croce disegnata sulla porta e anche una lettera minatoria, ndr), ma ad accrescere l’inquietudine ci sono le reiterate minacce nei confronti di un noto giornalista di Repubblica che sta seguendo per la cronaca giudiziaria quel processo e che è un attento osservatore delle attività dei clan da anni. Non dimentichiamo che c’è grande fibrillazione dentro quel mandamento mafioso, tanto che uno dei suoi componenti, Dainotti, è stato ucciso alla vigilia dell’anniversario della strage di Capaci, il 22 maggio a poche centinaia di metri dal palazzo di Giustizia.
Mi sembra di capire che lei lega tutti questi fatti. Naturalmente non ho gli elementi per dimostrare una connessione tra questi episodi, mi limito a osservare, però, che mi sembrano tutte vicende sintomatiche di un clima sociale che sta cambiando. Probabilmente si tratta di gesti di sfida lanciati da un potere criminale che dopo anni di sconfitte giudiziarie e di immersione, forse vuole rialzare la testa, forse ha l’esigenza di dire a tutti: ‘Noi ci siamo’. E queste sono le situazioni più pericolose.
Cosa vuol dire è cambiato il cli-
ma sociale?
Ho vissuto con grande inquietudine gli sfregi materiali alle statue e alla fotografia di Giovanni Falcone. Ho vissuto con grande preoccupazione le minacce al collega e al giornalista e in questa situazione mi colpiscono certe reazioni e i toni di certi commenti ad una recente pronuncia della Cassazione che non intendo discutere anche perché non sono state ancora depositate le motivazioni.
Ovviamente si riferisce alla sentenza su Bruno Contrada della Cassazione che ha dichiarato ineseguibile la condanna a 10 anni per concorso esterno, passata in giudicato e già scontata dall’ex numero 3 del Sisde. Le chiedo, come giudice antimafia, una ipotesi su questa sentenza che potrebbe avere ripercussioni su altri processi.
Per alcuni commentatori quella pronuncia è stata lo spunto per mettere frettolosamente in discussione una intera stagione giudiziaria; per liquidare come frutto di pregiudizi tanti accertamenti sulle relazioni pericolose tra clan e segmenti deviati delle istituzioni. Sono operazioni inaccettabili, commenti che erano stati espressi anche in seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ( Cedu) relativa alla stessa persona e allo stesso processo. Una sentenza il cui fondamento mostrava una conoscenza quantomeno incompleta della storia giudiziaria del nostro Paese rispetto all’applicazione del reato di concorso esterno in associa- zione mafiosa
La Cedu dice che non si può condannare per concorso esterno per fatti anteriori al 1994, dato che fino a quell’anno non era configurabile quel reato. Lei cosa dice?
Mi limito ad osservare che le contestazioni di quella figura di reato compaiono già negli anni sessanta nel contrasto giudiziario ad alcune forme dell’Irredentismo altoatesino e poi si ripropongono anche ai tempi delle Brigate Rosse, oltre ad essere applicate anche da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel maxiprocesso Ter. Senza contare che forme di favoreggiamento o di complicità da parte dei “colletti bianchi” verso le associazioni di malfattori, che operavano nelle regioni del Sud, vennero penalmente sanzionate addirittura già nella seconda metà dell’800.
La difesa di Dell’Utri vuole cavalcare questa sentenza per ottenere la scarcerazione.
Allo stato, per chiunque, è prematuro fare valutazioni sulle ripercussioni su altri processi, non ci sono le motivazioni. Peraltro è sempre opportuno tenere conto, in ogni caso, delle condotte effettivamente provate a carico dei vari soggetti che hanno riportato le condanne.
Niente a Palermo accade per caso…
Anche gli atti simbolici in certe realtà non vanno sottovalutati. Ha sentito i suoi colleghi di Palermo?
Sì. Non sono indifferenti ai fatti di questi giorni. E sono ancor più consapevoli dell’importanza del loro impegno.
La sentenza Contrada non può cancellare una stagione giudiziaria sui rapporti tra mafia e organi delle istituzioni