Pil alto, tasse basse e lavoro: l’Italia rosea che vede solo Renzi
L’ex premier: tutto merito mio
Ese fosse davvero merito di Matteo Renzi? “Se tutti i giornali oggi scrivono che i dati economici sono migliori delle (loro) previsioni è perché la strategia di crescita e di riforme che abbiamo fatto durante i #MilleGiorni sta dando i primi frutti”, scrive il segretario del Pd su Facebook. L’obiettivo è rispondere a Mario Monti che, intervistato da Federico Fubini, ha detto che l’impatto delle parole di Renzi e delle sue polemiche su austerità e deficit “tende asintoticamente a zero”. Sottili perfidie bocconiane.
PER ALIMENTARE la sua polemica di giornata Renzi ha un argomento: l’ultimo bollettino economico di Banca d’Italia dove la stima di crescita per il 2017 viene rivista da +0,9 a +1,4. Stima parecchio ottimistica, anzi, la più ottimistica in circolazione finora. Ma via Nazionale vuole spandere positività: il governatore Ignazio Visco aveva ricordato a fine maggio che questi sono stati “gli anni peggiori” in tempo di pace per l’Italia. Ma ora nel bollettino si legge che a questo ritmo di crescita “nel 2019 il
Pil recupererebbe interamente la caduta connessa con la crisi del debito sovrano, avviatasi nel 2011”. Una originale misura, visto che la crisi in Italia è iniziata nel 2007 e il tracollo del Pil si è verificato nel 2009, tanto che poi anche la stessa Bankitalia ammette che il Pil “rimarrebbe tuttavia ancora inferiore di circa il 3 per cento al livello del 2007”. Qualche maligno potrebbe pensare che tanto ottimismo da parte della Banca d’Italia sia legato alla scadenza del mandato del governatore Ignazio Visco, in cerca di riconferma, si vedrà nei prossimi mesi se queste stime sono corrette. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan annuncia subito che “stiamo rivedendo le stime” e presto quelle verranno pubblicate quelle riviste.
Il problema dell’analisi di Renzi è che considera soltanto l’Italia e attribuisce qualunque evento positivo ai suoi mille giorni di governo. Con lo stesso approccio bisognerebbe attribuire al governo Renzi l’aumento di famiglie in povertà assoluta (1,619 milioni nel 2016, per Istat, contro 1,582 nel 2015), così come il peggioramento della condizione di chi è povero, misurata dall’indicatore di intensità (da 18,7 a 20,7 per cento).
L’approccio renziano è ormai radicato, è quello che lo ha spinto per mesi a rivendicare il merito della “creazione” di 800.000 posti di lavoro, alludendo all’aumento del numero degli occupati. Come dimostrano i dati dell’Istat ogni mese, quell’incremento è dovuto in gran parte a ragioni anagrafiche: la soglia della pensione si è alzata e molti che in altre epoche sarebbero usciti dal mercato del lavoro ci rimangono, continuando a fare quello che facevano. Nei numeri di maggio, gli ultimi disponibili, c’è un aumento di 407.000 occupati soltanto nella classe degli over 50, nelle altre gli occupati diminuiscono. Il contributo di Renzi avrebbe dovuto essere quello di far aumentare i contratti stabili (anche se con meno tutele in caso di licenziamento, dopo il Jobs Act). E invece, sempre a maggio, si rileva che i contratti a termine corrono (+8,2 per cento, cioè + 199.000) su base annua, mentre quelli stabili sono piatti (+0,8%, + 114.000).
INUTILE PERÒ SPERARE di cambiare l’approccio logico di Renzi. La forza della ripetizione lo ha impresso in tutto il dibattito pubblico italiano. Più utile allora alzare lo sguardo e vedere cosa succede intorno all’Italia. Nel primo trimestre dell’anno, mentre il nostro Pil arrancava allo 0,4 per cento, la Spagna ci doppiava allo 0,8 per cento e il Portogallo addirittura a +1. Si possono forse attribuire le performance spagnole a un deficit fuori da ogni regola, che nel 2016 era al 4,5 per cento (contro il 2,4 italiano). Ma il Portogallo è ancora più morigerato di noi, con un deficit 2016 fermo al 2 per cento. E infatti mentre il debito pubblico continuava a salire negli anni renziani - dal 131,8 per cento del Pil nel 2014 al 132,6 nel 2016 - il Portogallo lo teneva sotto controllo e lo riduceva un po’, da 130,6 a 130,5 e la Spagna da 100,4 a 99,4.
Dov’è il miracolo italiano e l’effetto dei mille giorni renziani? “I dati dicono che le scelte su tasse e lavoro hanno rimesso in moto l’Italia: adesso si tratta di farla correre. E mi sembra evidente: servono strategie pro crescita, non austerity”, scrive su Facebook Renzi per sostenere la sua ultima proposta. Cioè ignorare tutte le regole europee stratificate dal 2011 - soprattutto il trattato Fiscal Compact - e spingere il deficit e Pil al 2,9 per cento del Pil per cinque anni, così da tagliare le tasse. Una ricetta che neppure il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan prende sul serio. Ieri ha ribadito: “Il futuro dell’Ue non si gioca sul Fiscal Compact”.
Strabismo
Trascura un dettaglio: gli altri Paesi Ue crescono molto più di noi
RENZI OMETTE poi un dettaglio: da quasi otto mesi al governo c’è un altro, Paolo Gentiloni. E la storia politica recente italiana (e non solo) ha dimostrato il peso del “fattore C”, come si chiamava ai tempi di Romano Prodi: i benefici elettorali vanno ai politici in carica quando la crescita arriva, non a chi pretende di aver fatto le riforme che l’hanno innescata.