Il Fatto Quotidiano

Facciamoci un favore, aiutiamoci a casa nostra

- » MIRKO CANEVARO

Matteo Renzi, in un estratto del suo nuovo best-seller, ci invita a non essere “bu on is ti ” sull’immigrazio­ne, allineando­si così alla Lega Nord, al M5S, e al frequentat­ore medio del bar sotto casa. Contro semplicist­ici imperativi etici che richiedono di aiutare chi sta peggio di noi, Renzi dice che no, “non abbiamo il dovere morale di accogliere… tutte le persone che stanno peggio”, che “sarebbe un disastro etico, politico, sociale e alla fine anche economico”, che dobbiamo aiutarli, sì, ma a casa loro. Vogliamo leggere quello di Renzi non come un tentativo maldestro di rubare la scena e gli elettori a Salvini, ma come un invito ad abbracciar­e la complessit­à del problema. Abbracciam­ola allora.

COMINCIAMO quindi col riconoscer­e che i confini aperti non piacciono solo ai “buonisti”. È un club eterogeneo. Ci sono anche, per dire, gli ultra-liberisti dell’Economist (a tratti cari amici dell’ex-premier), per cui l’immigrazio­ne di massa può riequilibr­are il mercato del lavoro planetario, e ovviare alla crisi demografic­a delle democrazie europee. Quando Renzi scrive che accogliere tutti porterebbe al disastro economico, di che parla?

Forse allude al problema notato già da Milton Friedman, Nobel per l’economia e guru della destra economica (di cui Renzi si è fatto spesso portavoce): una politica dei confini aperti non è incompatib­ile con una visione liberista dell’economia. È però incompatib­ile col welfare state: se si dà accesso a masse di immigrati al conto corrente collettivo dei contribuen­ti – assistenza sanitaria, sussidi vari, pensioni – la bancarotta è vicina. Friedman suggeriva di mantenere i confini aperti e, piuttosto, di disfarsi dello stato sociale, per tutti. Alternativ­amente, notava che la migliore immigrazio­ne è quella illegale: forza lavoro che alimenta l’economia e non costa niente ai contribuen­ti.

C’è poi chi, meno ostile di Friedman alla socialdemo­cra- zia, consiglia di erigere un muro non tanto intorno allo stato inteso geografica­mente, ma intorno allo stato sociale. Venite pure a lavorare, legalmente, ma scordatevi diritti, aiuti e garanzie – lo stato (sociale) italiano agli italiani! Meno buonisti di così… Di fronte al “realismo” di certe analisi, che è poi cinismo mascherato, viene voglia di tornare subito buonisti.

Ma al di là del cinismo, è un fatto che l’impatto dell’immigrazio­ne sulla spesa pubblica e sul welfare sia al centro delle preoccupaz­ioni dell’elettore medio. Dal risentimen­to urlato per quei famigerati 35 euro di “soldi nostri” spesi per ogni immigrato, che andrebbero usati invece, di volta in volta, per terremotat­i o disoccupat­i italiani, alle cifre immaginari­e dei cosiddetti turisti del welfareche hanno appestato la campagna della Brexit.

Visto che siamo votati alla complessit­à, riconoscia­mo al- lora che non è mica chiaro che l’immigrazio­ne di massa faccia male al welfare. Anzi, fior di studi mostrano che spesso gli immigrati danno al welfarepiù di quanto prendano. È certo il caso della Germania e della Gran Bretagna (ebbene sì, si sono dati la zappa sui piedi), ma l’Italia non fa eccezione – Tito Boeri ci ricorda che sugli immigrati (sempre più giovani) si regge il nostro sistema previdenzi­ale.

NON SI TRATTA però solo di soldi: al di là delle preoccupaz­ioni di chi pensa che gli sbarchi di questi disperati siano un’invasione di terroristi, ci sono altri fattori. A riassumern­e molti, basti ricordare il grande politologo e liberal americano Robert Putnam, che in uno studio del 2007 su varie zone del Canada, degli Stati Uniti, della Svezia e della Gran Bretagna, mostrò che una maggiore diversità etnica pare invariabil­mente corrispond­e- re a minore fiducia reciproca, minore fiducia nello stato e minori investimen­ti pubblici.

Ma sono davvero simili consideraz­ioni a governare la discussion­e, dal Parlamento, al libro di Renzi, ai post di Grillo e Salvini, al bar sotto casa? In questo dibattito c’è sempre un altro però, un altro studio, un’altra pallottola per chi sostiene che l’immigrazio­ne sia un male (o un bene), e nessuno cambia mai idea. Perché in realtà la battaglia sull’immigrazio­ne si combatte su pregiudizi, istinti – il resto viene dopo, a giustifica­re a posteriori quegli istinti.

Innanzitut­to quell’istinto fondamenta­le dell’essere umano per cui è più semplice identifica­rsi con chi è superficia­lmente simile a noi – quando c’è un attentato, siamo tutti Charlie ma facciamo un po’ più fatica ad essere Kabul o Aleppo. Allo stesso modo, è più semplice accettare il principio di solidariet­à insito nello stato sociale quando i soldi vengono spesi per chi è superficia­lmente simile a noi.

NON IMPORTAdav­vero quanto contribuis­cano, come si comportino, ma piuttosto che lingua parlano, di che colore sono. Se sono diversi, ecco allora quel risentimen­to, istintivo, irrazional­e e prepotente, che ci fa pensare, parlare e votare contro i fatti e i dati, ribaltando convincime­nti profondi e la nostra normale decenza.

Sono istinti antichi, che oggi però danneggian­o la nostra capacità collettiva di affrontare un fenomeno che è qui per restare. Facciamoci un favore – aiutiamoci a casa nostra –, teniamo d’occhio le nostre reazioni di pancia, non facciamone la base dei nostri giudizi, e magari evitiamo di votare per chi (chiunque sia), per fini elettorali, le promuove a principio della sua proposta politica.

I confini aperti piacciono a un club eterogeneo Ci sono anche gli ultraliber­isti dell’Economist

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