IL CSM SI UMILIA CON LE NOMINE DEI MAGISTRATI TROPPO POLITICI
Opinione pubblica e magistratura associata sono in questi giorni interessate dagli echi di un aspro dibattito che tocca punti cruciali dell’attività del Csm e, in particolare, lo spirito con cui viene esercitata. In numerose, recenti occasioni le liste di comunicazione tra i magistrati italiani hanno accolto proteste, critiche, disappunto per deliberazioni già assunte o temute per il futuro riguardanti delicate funzioni.
Che portavoce di questo potente ed esteso dissenso si sia fatto l’ex presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, subito accusato di perseguire scopi di settarietà correntizia, non serve a sminuire la gravità del problema ( segnalato anche all’interno del maggior gruppo associativo presente al Csm), che tocca non soltanto singoli provvedimenti ma soprattutto – ed è questo che maggiormente preme all’ordine giudiziario – il sistema di regole e criteri ispiratori.
Non può certo essere casuale l’ormai sistematico ricorso al
Tar degli aspiranti insoddisfatti in occasione di nomine ad importanti uffici. Né può essere motivo di consolazione il drammatico cambio di orientamento (salvo sparute, ma significative, eccezioni) della giurisprudenza amministrativa, sempre più indulgente nel confermare (forse anche per timore di vedersi privata per legge, come paventato in passato, del sindacato sugli atti del Csm) le deliberazioni consiliari, in omaggio ad un esorbitante timbro di alta discrezionalità accreditato all’organo di governo autonomo.
MA PROPRIO per questo, il Csm è investito di una responsabilità, che ha origine nella Costituzione, di livello elevatissimo: applicare coerentemente ed uniformemente le puntuali regole che si è dato, onde non perdere credibilità e fiducia collettiva. Non si deve allora parlare di lesa maestà se si discute pubblicamente di scelte infelici già avvenute e si cerca di prevenirne ulteriori. Le regole vigenti impongono che le nomine per uffici direttivi si compiano a favore del miglior candidato per attitudini e merito a coprire il posto a concorso. E le attitudini vanno desunte dal prece- dente esercizio di funzioni giudiziarie in ruoli principalmente corrispondenti a quello da assegnare.
Il presupposto delle regole del Csm è che l’esperienza che più conta è quella fatta giornalmente nelle aule di Giustizia allo scopo di fornire alla comunità le risposte che essa esige. È vero che il testo unico sulla dirigenza giudiziaria contempla la possibilità di tener conto anche di esperienze svolte dai candidati presso qualificati organismi nazionali ed internazionali. Ma quando ciò accade occorre che il Csm, per non violare le regole autoimpostesi, dimostri che sia trascorso un adeguato periodo di decantazione dopo lo svolgimento degli incarichi extragiudiziari, che questi qualifichino chi li ha svolti in senso professionalmente preminente o almeno equivalente rispetto agli altri concorrenti. Ed occorre poi, se si intende rispettare le regole, che il Csm scrutini con rigore ed in profondità l’attività svolta all’esterno della giurisdizione per verificarne la positività di esiti per l’immagine della magistratura.
Occorre in particolare stabilire se il magistrato che ha abbandonato per un periodo non breve di tempo le ordinarie mansioni abbia saputo difendere, non gli interessi politici di chi lo ha nominato ma, il valore dell’indipendenza della magistratura. E se si tratta di incarichi ministeriali si dovrà dar conto del se il magistrato abbia, ad esempio , concorso ad esercitare con equilibrio la potestà disciplinare nei confronti dei Colleghi, se si sia battuto per la sopravvivenza di benemerite Istituzioni giudiziarie a tutela delle categorie meno forti quali i Tribunali per i minorenni (che ostinatamente il Ministro della Giustizia intende sopprimere), se sia stato favorevole allo snaturamento della normativa di prevenzione in materia di criminalità organizzata. In altri termini, il Csm non potrà appuntare medaglie al petto che suonino mortificazione e generino frustrazione in chi con decoro e dignità ha lavorato in uffici di prestigio e di grande responsabilità, abituandoli a credere che la vita professionale vissuta fuori dalla magistratura premi di più. Ancor più mortificante sarebbe se lo stesso Csm adottasse la deprecabile logica compensativa dei propri errori dei direttori di gare sportive, preannunciando che i soccombenti potrebbero essere remunerati attraverso il conferimento di altri posti, ai quali concorrono ulteriori aspiranti. Si aggiungerebbe iniquità ad iniquità. Non vi sono ragioni per invocare voti unanimi su questioni di tale rilievo, soffocando l’espressione di punti di vista che riflettono posizioni ideali di radicale diversità.
In fondo, sono in ballo l’assetto e la struttura di un potere dello Stato e la garanzia di un’amministrazione della Giustizia che protegga senza le interferenze della politica i diritti sociali e quelli individuali.
* ordinario di Diritto privato comparato all'Università di Palermo,
già componente del Csm