Alla “cena di Toni” arrivano tardi soltanto la malattia e il farmaco
Stanca, soprattutto se qualcosa di inatteso ti ha già stravolto la vita. Ma non se si è in compagnia
i chiamo perché volevo chiederti se le canne fanno aumentare l’appetito, visto che hai un fidanzato che se ne fa tante”. Ad alzare il telefono per domandare informazioni è Toni De Marchi, giornalista, classe 1951, “mai uno spinello” in vita sua, ammalatosi di sclerosi multipla nel 2004. Protagonista del documentario girato e completamente prodotto dalla regista Elisabetta Pandimiglio, e in attesa del Sativex, medicinale a base di oppiacei in grado di alleviare alcuni effetti indesiderati della malattia.
COME SE TUTTI gli altri fossero fortemente voluti. L’attesa – pretesto del doc – si prolunga, diventa il Godot del sollievo, il Santo Graal della speranza, l’Everest del dolore, il motore immobile della sedia a rotelle, il traguardo dei giorni tutti uguali.
Ma qui esaurisce. Il Sativex, la burocrazia blocca tutto, la regione Lazio, il Tg3, le informazioni sugli effetti collaterali. Tutto questo ha fine nella cena. Unico effetto desiderato detratto dalla malattia.
E da qui, dal minuto uno del doc La cena di Toni, tutto ha inizio: la narrazione dei giorni che si lasciano accarezzare come un gatto, delle stagioni, fuori dalla finestra che si alternano senza che il protagonista possa assaporarne i colori, del lavoro al computer, degli amici che entrano ed escono dal salotto, delle ricette in inglese affidate all’assistente per preparare la cena. Le cene, decine. Con decine di amici, colleghi e parenti.
A cena da Toni si festeggia l’arrivo del Sativex, o qualsiasi altra cosa. A cena da Toni c’è Toni, poi un’ottima cena, ricercata, con ingredienti saltati fuori da Amazon (come comprarli altrimenti) da ogni parte del mondo. Nella casa del giornalista, la malattia è ospite mal sopportato come un altro, si indulge con i suoi sintomi, come con i vecchi compagni di classe. Sul grande divano di Toni, inquadrato co- me oggetto fondante dalla telecamera, un amico mezzo argentino insegna a cantare “Bella ciao” a tre bambini. A casa di Toni si spiega a quegli stessi bambini che manca la porta del bagno, “perché altrimenti non ci passerebbe la sedia a rotelle” e che è difficile andare fuori “perché il montacarichi che hanno installato per le scale dell’edificio è troppo piccolo per trasportarla”.
Intorno al tavolo svedese, sotto al lampadario di design, di fronte alla locandina della mostra dell’Avanguardia russa a Amsterdam 1915 - 1932, si finisce anche per confessare alla telecamera, dando voce alle immagini sapientemente montate da Cesare Apolito col supporto di Leonardo Mancino, che “la malattia non ti stravolge la vita all’improvviso, ma è una condizione che ti cambia piano piano l’esistenza”. Che solo quando sei costretto a stare con te stesso e rifletterci su causa forza maggiore arrivi a dirti che “forse un figlio l’avresti voluto”, che dopo anni passati a viaggiare senza legami “ti rendi conto che gli altri ti sono quasi indispensabili”. O– al contrario – di quanto “bene” faccia la sclerosi all’amicizia, all’abbando- no di qualsiasi sciocco pudore, allo stare con gli altri. E a proposito di pudori, quelli del protagonista vanno di pari passo con quelli della regia.
CON TOCCO ANALITICO e delicato, distaccato e compiacente allo stesso tempo, infatti, Pandimiglio sa lasciare la porta socchiusa durante la seduta di fisioterapia, o decide di spalancarla alla conversazione intima di De Marchi con la sua famiglia, o seguire il protagonista nell’odissea della passeggiata, scortato dall’assistente e amareggiato perché – a differenza di quanto accade a lui – nel quartiere tutti conoscono il suo alter ego e salutano.
Fino a quell’indugiare immobile sulla porta d’ingresso che si apre, ad accogliere uno a uno volti di giovani, donne, uomini, bambini, tutti diversi, tutti ospiti, tutti invitati, “chi più chi meno volentieri”.
Tutti lì per la cena di Toni.