Berlino Est Scatti liberati sotto un cielo di piombo
L’ARCHIVIO Immagini dell’Agenzia Ostkreuz 25 anni dopo
Al centro della piazza, Karl Marx è seduto, lo sguardo dritto di fronte a sé: guarda al futuro. Accanto a lui, in piedi, Friedrich Engels ha il medesimo sguardo. Così li ha immaginati e realizzati lo scultore Ludwig Engelhardt per il progetto del Marx-Engels Forum nel quartiere Mitte di Berlino.
Alle loro spalle il passato, un bassorilievo in marmo di Werner Stötzer dal titolo Alte Welt ( le tteralmente “mondo antico”); di fronte a loro il futuro, ciò a cui guardano, due rilievi in bronzo di Margaret Middel intitolati Szenen des Lebens in einer befreiten Gesellschaft (“Scene di vita in una società liberata”).
Realizzato negli Anni 80 come inno al socialismo, di quel complesso statuario e di quell’idea di libera società, oggi su quella che si chiama Schloßplatz (“Pia zza del Castello”), c’è solo il ricordo, l’assenza, ovvero la fotografia.
COME TESTIMONIA il reportage Das Denkmal (“Il Monumento”) che la fotografa tedesca Sibylle Bergemann ha dedicato alla realizzazione del Forum, esposto oggi nella mostra che celebra il venticinquennale dell’Agenzia fotografica berlinese Ostkreuz (a Roma in occasione del festival Fotoleggendo al foyer del Goethe-Institut e al Museo di Roma in Trastevere). Nata all ’ indomani della caduta del muro al Cafè du Marché a Parigi per volontà dei fo-
DOPO IL MURO Rimaste nei cassetti perché vietate dalla Stasi, le foto ritraggono il crollo del socialismo con vuoti e assenze
tografi censurati dalla Stasi, l’Agenzia diviene subito il simbolo della liberazione ideologica e mostra al mondo le opere dei propri fotografi rimaste per anni nei cassetti.
Il lavoro di Bergemann rientra tra questi. Commissionato dall’allora intellighenzia della Germania dell’Est, il reportage non viene mai pubblicato perché troppo carico di verità simboliche.
In effetti, Bergemann non è cronista di quella costruzione, ma narratrice spaventosamente lucida di una follia effimera.
Così, i busti dei padri del socialismo scientifico senza il blocco superiore del capo, come mozzati della testa, o ancora la statua di Engels appesa in precario equilibrio a una gru si leggono come l’involontario romanzo del crollo di un’utopia, la fine di un’epoca e l’inizio di qualcos’altro.
Fine-inizio/crollo- ricostruzione è l’ ininterrotto inanellarsi di cui è composto il Dna della città di Berlino che, come scriveva con una lucidità irripetibile nel lontano 1910 lo storico dell’arte Karl Scheffler “è una città condannata per sempre a divenire e mai a essere”.
Solo il cielo – il cui colore è stato rappresentato al meglio da Wim Wenders in quel capolavoro di film che è Il cielo sopra Berlino( 1987) – sembra essere lo stesso: compatto, impenetrabile, grigio.
COME PURE testim oniano gli scatti di Maurice Weiss (anch’essi esposti in occasione della mostra) raccolti nel reportage Ciel de plombe (“Cielo di piombo”) che proprio come la pellicola di Wenders sembrano ispirati ai versi di Rainer Maria Rilke quando, nella capitale tedesca, scrive di trovarsi “sotto il cielo/di questa infinità”.
Weiss racconta la frenesia costruzionista che, all’indomani del crollo del muro, percorre la città come uno sciame sismico che ne ridisegna una nuova topografia dove non c’è spazio per i vecchi palazzi, destinati a scomparire sotto facciate ultramoderne, e in cui gli spazi rimasti spogli dal disuso e dal terrore vengono riempiti e occupati.
Postdamer Platz, una terra di nessuno proprio accanto al muro, viene bonificata e ripopolata, la comunità turca di Kreuzberg dilaga verso la periferia nord-est, Prenlauer Berg diventa poco a poco il quartiere dei giovani artisti squattrinati, come ricorda M. Fortunato in Le voci di Berlino.
LE POLAROID di Maurice Weiss colgono con fulminante realismo i mesi che seguono alla caduta del muro, quando giunti nel dicembre 1990 le prime libere elezioni federali dopo il 1933 salutano le strade dei quartieri ricolme di decori natalizi a illuminare con il lucore intermittente della speranza lo skyline di una città in divenire dove ancora si può rivivere quel privilegio – tutto da imparare e proprio solo di alcune città – che per Walter Benjamin è lo smarrirsi in una città come in una foresta.