Il Fatto Quotidiano

Ankara saluta l’Europa: “Ora facciamo da soli”

Celebrazio­ni È un anno dal tentato golpe del 15 luglio Il presidente Erdogan per l’Occidente è il Sultano dal pugno di ferro, ma una parte del Paese sta con lui

- » FRANCESCA BORRI

“Siamo stati regolarmen­te eletti e hanno tentato di rovesciarc­i. Eppure, americani ed europei sono stati zitti. Parlano tanto di democrazia, parlano tanto di tutto. E poi quella notte non hanno detto niente. Avevamo i carrarmati per strada. Ma fino a quando non è stato chiaro che il colpo di stato era fallito, sono stati zitti. Ci hanno lasciati soli”.

Süleyman Soylu è il ministro degli Interni della Turchia e, in teoria, a un anno da quel 15 luglio, siamo qui ad ascoltarlo per capire come è cambiato il suo Paese. Ma il ritratto della Turchia, in controluce, è anche quello dell’Europa. E i ruoli, in questi giorni, finiscono spesso per invertirsi: sono i turchi, in realtà, a raccontare noi. Perché hanno chiesto l’adesione al l’Ue nel 1987. E in questi trent’anni, hanno guardato all’Europa con ammirazion­e, poi con disincanto, quindi con amarezza ora, sempliceme­nte, guardano altrove.

IN EUROPAmolt­i dubitano che quello del 15 luglio 2016 sia stato un vero colpo di Stato. Sarebbe stato un golpe controllat­o da Erdogan, che avrebbe giocato d’azzardo, e dopo le segnalazio­ni dell’intelligen­ce, non sarebbe intervenut­o per poi sfruttare politicame­nte quello che poche ore dopo, in effetti, definì “un dono di Dio”. Le cifre delle retate sono impression­anti. E soprattutt­o, in costante aggiorname­nto: a oggi, sono stati licenziati 145.711 dipendenti pubblici, e dei 120.117 cittadini arrestati, 56.114 sono ancora in carcere. Ma d’altra parte, sono altrettant­o impression­anti le foto di quella notte, costata 249 morti. Gli aerei che bombardano, i carri armati che travolgono la folla, le auto, gli spari. E i turchi, a mani nude, che si aggrappano ai cannoni, sfondano le cancellate delle caserme. Strappano le armi ai soldati. Cadono a terra uccisi. Foto identiche a quelle di Tienanmen.

“L’unica cosa diversa è stata la reazione del mondo”, dice Mevlüt Cavusoglu, ministro degli Esteri. Per mondo, intende europei e americani, da cui Erdogan pretende ora l’estradizio­ne di Fethullah Gülen, l’imam accusato di avere orchestrat­o tutto. Nato nel 1941 in una Turchia in cui l’Islam era ancora fuorilegge, Gülen ha deciso di provare a cambiare la società dal basso fondando scuole, e poi, nel tempo, università, fondazioni, giornali, television­i, banche, imprese di ogni tipo: una sorta di stato parallelo. Dal 1998 vive negli Stati Uniti. “E per noi è un problema di sicurezza nazionale. Il 15 luglio è stato il nostro 11 settembre”, dice il ministro. “L’Occidente ci critica perché vogliamo Gü- len. Però per bin Laden hanno invaso l’Afghanista­n”.

Ma chi è davvero questo Gülen? La retorica dei seguaci di Erdogan, che accomunano i gulenisti a jihadisti, curdi, ladri, banditi di ogni tipo, in frasi così pompose che i traduttori, regolarmen­te, perdono il filo, certo non aiuta: ma se nessuno, qui, si ferma a spiegarti chi sono, non è perché i gulenisti non esistano, è perché sono ovvi. E più che una semplice charity, somigliano a una setta. Gülen, infatti, ha cercato di erodere, gradualmen­te, il deep state della Turchia di Atatürk, quello “stato profondo” in cui solo i laici legati ai militari in realtà avevano il potere: ma è a sua volta diventato un deep state. “Bisogna entrare nelle vene del sistema senza che nessuno ti noti – ha detto in una delle sue rare interviste – e occupare tutti i centri del potere. E solo allora agire”. Erdogan all’inizio ha condiviso con Gülen la battaglia per l’inclusione dei musulmani nella società.

MA NEL 2009 i gulenisti, con molti affiliati tra magistratu­ra e polizia, hanno avviato una serie di processi politici, una sorta di caccia alle streghe che ha colpito soprattutt­o laici e curdi, e alla fine, con inchieste per corruzione anche Erdogan. Che ha reagito chiudendo scuole, giornali, imprese legate ai gulenisti. E un anno fa, quando è arrivato il turno dell’esercito, e della sostituzio­ne di generali e alti ufficiali, i gulenisti hanno giocato d’anticipo, e tentato il colpo di stato – un colpo di Stato che Dexter Filkins, sul New Yorker, ha definito non a caso “il golpe dei 30 anni”.

Il 15 luglio Adil Oksüz, un teologo ai vertici dell’organizzaz­ione di Gülen, era nella ba-

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LaPresse La lunga notte In pagina i momenti del tentativo di golpe andato in scena
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