Ankara saluta l’Europa: “Ora facciamo da soli”
Celebrazioni È un anno dal tentato golpe del 15 luglio Il presidente Erdogan per l’Occidente è il Sultano dal pugno di ferro, ma una parte del Paese sta con lui
“Siamo stati regolarmente eletti e hanno tentato di rovesciarci. Eppure, americani ed europei sono stati zitti. Parlano tanto di democrazia, parlano tanto di tutto. E poi quella notte non hanno detto niente. Avevamo i carrarmati per strada. Ma fino a quando non è stato chiaro che il colpo di stato era fallito, sono stati zitti. Ci hanno lasciati soli”.
Süleyman Soylu è il ministro degli Interni della Turchia e, in teoria, a un anno da quel 15 luglio, siamo qui ad ascoltarlo per capire come è cambiato il suo Paese. Ma il ritratto della Turchia, in controluce, è anche quello dell’Europa. E i ruoli, in questi giorni, finiscono spesso per invertirsi: sono i turchi, in realtà, a raccontare noi. Perché hanno chiesto l’adesione al l’Ue nel 1987. E in questi trent’anni, hanno guardato all’Europa con ammirazione, poi con disincanto, quindi con amarezza ora, semplicemente, guardano altrove.
IN EUROPAmolti dubitano che quello del 15 luglio 2016 sia stato un vero colpo di Stato. Sarebbe stato un golpe controllato da Erdogan, che avrebbe giocato d’azzardo, e dopo le segnalazioni dell’intelligence, non sarebbe intervenuto per poi sfruttare politicamente quello che poche ore dopo, in effetti, definì “un dono di Dio”. Le cifre delle retate sono impressionanti. E soprattutto, in costante aggiornamento: a oggi, sono stati licenziati 145.711 dipendenti pubblici, e dei 120.117 cittadini arrestati, 56.114 sono ancora in carcere. Ma d’altra parte, sono altrettanto impressionanti le foto di quella notte, costata 249 morti. Gli aerei che bombardano, i carri armati che travolgono la folla, le auto, gli spari. E i turchi, a mani nude, che si aggrappano ai cannoni, sfondano le cancellate delle caserme. Strappano le armi ai soldati. Cadono a terra uccisi. Foto identiche a quelle di Tienanmen.
“L’unica cosa diversa è stata la reazione del mondo”, dice Mevlüt Cavusoglu, ministro degli Esteri. Per mondo, intende europei e americani, da cui Erdogan pretende ora l’estradizione di Fethullah Gülen, l’imam accusato di avere orchestrato tutto. Nato nel 1941 in una Turchia in cui l’Islam era ancora fuorilegge, Gülen ha deciso di provare a cambiare la società dal basso fondando scuole, e poi, nel tempo, università, fondazioni, giornali, televisioni, banche, imprese di ogni tipo: una sorta di stato parallelo. Dal 1998 vive negli Stati Uniti. “E per noi è un problema di sicurezza nazionale. Il 15 luglio è stato il nostro 11 settembre”, dice il ministro. “L’Occidente ci critica perché vogliamo Gü- len. Però per bin Laden hanno invaso l’Afghanistan”.
Ma chi è davvero questo Gülen? La retorica dei seguaci di Erdogan, che accomunano i gulenisti a jihadisti, curdi, ladri, banditi di ogni tipo, in frasi così pompose che i traduttori, regolarmente, perdono il filo, certo non aiuta: ma se nessuno, qui, si ferma a spiegarti chi sono, non è perché i gulenisti non esistano, è perché sono ovvi. E più che una semplice charity, somigliano a una setta. Gülen, infatti, ha cercato di erodere, gradualmente, il deep state della Turchia di Atatürk, quello “stato profondo” in cui solo i laici legati ai militari in realtà avevano il potere: ma è a sua volta diventato un deep state. “Bisogna entrare nelle vene del sistema senza che nessuno ti noti – ha detto in una delle sue rare interviste – e occupare tutti i centri del potere. E solo allora agire”. Erdogan all’inizio ha condiviso con Gülen la battaglia per l’inclusione dei musulmani nella società.
MA NEL 2009 i gulenisti, con molti affiliati tra magistratura e polizia, hanno avviato una serie di processi politici, una sorta di caccia alle streghe che ha colpito soprattutto laici e curdi, e alla fine, con inchieste per corruzione anche Erdogan. Che ha reagito chiudendo scuole, giornali, imprese legate ai gulenisti. E un anno fa, quando è arrivato il turno dell’esercito, e della sostituzione di generali e alti ufficiali, i gulenisti hanno giocato d’anticipo, e tentato il colpo di stato – un colpo di Stato che Dexter Filkins, sul New Yorker, ha definito non a caso “il golpe dei 30 anni”.
Il 15 luglio Adil Oksüz, un teologo ai vertici dell’organizzazione di Gülen, era nella ba-