Sul treno in gita verso il cacciucco: sembro la Gegia
Quindici anni io, mia sorella tredici nell’estate del 1974. Basta, è deciso: andiamo al mercatino americano di Livorno. Favoleggiamo: è il più famoso d’Italia, ha della roba che non si trova da nessuna parte, persino Ray-ban autentici a prezzi stracciatissimi. Interpellata, mamma solleva la barriera del “Sarà il caso?” che significa “Non è il caso”. Aggiunge che siamo piccole. Cioè? Chiedo io, scrutandola dall’alto in basso: rispetto a lei sono un gigante, frequento un liceo dove gorilla barbuti allestiscono picchetti per impedire l’accesso a scuola, e una volta dentro bisogna affrontare professori simili a gargoyle. Piccola io, che devo vedermela con questo mondo disumano? Io che leggo Hemingway e Mauriac?
CRI HA APPENA concluso la terza media, e segretamente si è fidanzata con un ragazzino conosciuto in parrocchia. Per tutto l’inverno, quando usciva per qualche commissione, lo sbaciucchiava al riparo delle colonne del porticato. Siamo scappate di mano a mamma, distratta dal fratello lui sì piccolo, ma che a tre anni canta già David Bowie, chissà perché. Ma d’estate mamma riprende le redini della famiglia in campeggio, dove io passo il tempo leggendo e fantasticando, suonando sulla chitarra tristissime canzoni di moda, e rassegnandomi a stare lì tipo larva.
Per fortuna, Cri ha più iniziativa e senso pratico. Ha intrecciato amicizia con un gruppo di ragazzi della nostra età, e comincia a tessere la tela per l’avventura livornese. Torna alla carica proponendo un’uscita di gruppo: noi con Paolo e Marco, i fratelli romani. Nel mio pessimismo supportato dalla recente scoperta di Sartre, penso che il “no” sarà irrevocabile. Invece, mamma tentenna. I romani sono assai simpatici. Quando vengono a giocare a carte con noi, nel pomeriggio, mamma ride al punto da farci venire i nervi, e i due guasconi la lisciano come una gatta. Papà, che arriva il fine settimana, non si oppone. Una gita, ma sì, che pericolo c’è? Vanno in treno, in gruppo, ormai sono grandi. In un lampo, siamo cresciute e partiamo per Livorno.
Mamma ci scorta con la Bianchina fino al treno, dove i due ragazzi arrivano in autostop. Che invidia e che vergogna, ci diciamo in un’occhiata, mentre ci fiondiamo in uno scompartimento bollente come una pentola a pressione, con tanto di fischio della locomotiva. Nel fracasso sferragliante, e tra le tende che frustano l’aria dai finestrini spalancati, Paolo mi grida che somiglio a Gegia, una ladra bionda e occhialuta a fumetti. “Non leggo più Billy Bis” di- chiaro io, sulle mie.
“E manco io, è chiusa la serie”. Ribatte lui seccato, mentre Marco allunga una mano a sfiorare il ginocchio di Cri che si scosta lanciandomi un’occhiata eloquente. Prima di partire ci siamo ripromesse di evitare quegli accoppiamenti tra fratelli e sorelle tipici dei fotoromanzi, quella roba stomachevole che spulcio avidamente da mia zia, ma per documentarmi, è chiaro! Mi sono votata a Hemingway.
Il treno è pieno di un’umanità destinata presto a scomparire: soldati di leva in licenza, hippy con la chitarra in braccio, preti con la tonaca, donne anziane vestite di nero da capo (coperto) a piedi, uomini anziani in pantaloni di fustagno, giacca e cappello di paglia, con panieri tenuti insieme da canovacci annodati, gente da cui il treno si sgrava dopo frenate assordanti e soste lunghissime in ogni stazione della costa. Anche lui, l’accelerato, con i suoi scompartimenti di legno, i finestrini abbassati a metà, e la scritta vietato sporgersi sta per svanire.
Ma per ora, lì siamo e con quello arriviamo trionfalmente a Livorno! Ci fotografiamo alla stazione con la po- laroid di Paolo, tutti abbracciati e felici, come se fossimo arrivati sulla Luna con il Lem. Poi, via verso piazza XX Settembre, al mercato americano. Anche se non ci siamo mai stati, se non la conosciamo, amiamo Livorno città operaia e portuale, così vera rispetto alla città snob, ricca e bottegaia dove viviamo. Amiamo Livorno e amiamo il mercato che non abbiamo mai visto e certo rimaniamo un po’ sorpresi dalle lamiere attaccate ai platani della piazza, per coprire le bancarelle. Chissà perché, immaginavamo un mercato immerso negli alberi, forse vista mare. Paolo comincia a brontolare: “È mejo Porta Portese”.
GIRONZOLIAMO tra bancarelle con divise e scarponi militari, chissà se americani: non ci intendiamo di roba del genere, e chiediamo lumi sui Levi’s. Troppo cari i jeans, e poi che modelli sono? “Roba dell’Uno, a Porta Portese sì che li trovi favolosi” brontola Paolo. Marco si prova occhiali da sole vecchio stile. “Sembri un maniaco” gli dice Cri, e lui molla. “A Porta Portese ne trovi migliaia, di Ray- Ban usati” gli ricorda Paolo. Dopo u n’ora che vaghiamo incerti nell’afa, tra reperti bellici e orpelli da soffit- ta, troviamo il banchetto che vende le t-shirt Fruit of the Loom e la fatica del viaggio ci sembra completamente ripagata. Mentre tiriamo fuori le lire, Marco scuote la testa riccia e osserva: “Costano un botto. Ce so’ a paccate a...” “Porta Portese” concludiamo noi, in coro.
Ormai si è capito che il famoso mercato americano di Livorno è una succursale pallida del mitico mercato di Porta Portese, dove bisognerà assolutamente andare, magari d’inverno, chissà.
Almeno il cacciucco, quello si mangia solo a Livorno. Chiediamo due porzioni, ce le dividiamo. Il ragazzo dietro il banco strizza l’occhio a mia sorella, le chiede se sia straniera.
“So’ de Roma” mente lei. C’è da ridere? Noi ridiamo fino a farci spuntare le lacrime.