Ken, un ateo arrabbiato in fuga dai confratelli
La “cattiva fede” dello spirituale Follett
D’accordo, al giorno d’oggi quasi tutti gli adolescenti sono in possesso di un cellulare. Eppure c’è sempre in una scuola lo sfigato che invece non ce l’ha, perché i genitori non vogliono, perché abbracciano un altro modo di pensare e vedere il mondo. Con i dovuti paragoni temporali e geografici, il ruolo di uno di questi sfigati lo ha rivestito negli anni 50 e 60 lo scrittore Ken Follett, come racconta in “Cattiva fede” (EDB, ottimamente tradotto e introdotto da Alessandro Zaccuri). Non dovette essere facile crescere nella famiglia dell’autore gallese della vendutissima trilogia che comprende I pilastri della Terra, Mondo senza fine e La colonna di fuoco: a casa sua non c’erano televisione, radio o giradischi, tutte cose “mondane” di cui si doveva fare a meno, dato che i Follett non erano cittadini di questo mondo, ma citando la lettera di Paolo ai Filippesi, avevano la cittadinanza nei cieli.
QUINDI, CAROKen, aver impiegato quattro anni per dipingere come Raffaello e una vita intera per imparare a dipingere come un bambino. A Follett sono bastati tre anni per diventare ateo, il resto della vita lo ha impiegato per ritrovare una qualche forma di spiritualità. Adesso si considera un ateo non praticante, non crede in Dio, non fa la comunione, ma ogni tanto va in chiesa e “gli piace”. Dal punto di vista etico la sua asticella è il giornale ultraconservatore e religioso Mail on Sunday: quando arriva un attacco da lì allora è sicuro di aver fatto qualcosa di giusto. Un piccolo pamphlet, Cattiva fede, che si inserisce nella riflessione di Carrère e Albinati sulla religione, senza alcuna pretesa narrativa, se non l’onestà di Follett, quella che probabilmente hanno apprezzato milioni di lettori, atei e non.