Penso al futuro dei miei figli e voglio fuggire da Roma
Sono nato e cresciuto a Roma e fino alla fine degli anni Novanta, ovvero all’età di trent’anni non avrei mai pensato di andarmene, nemmeno dal mio quartiere. Con l’inizio di questa estate, invece, mi sono ritrovato a fare i conti con un istinto del tutto inaspettato: non vedere l’ora di raggiungere la soglia delle ferie per allontanarmi da Roma. Cos’è successo? Innanzitutto l’involuzione della città in un caos metropolitano senza il minimo barlume dei più elementari servizi che offre una metropoli: la prima cosa, il trasporto pubblico! Muoversi nella città, non per vezzi particolari ma per andare a lavorare, è diventato a sua volta un lavoro: alienante quando non addirittura impossibile.
Per non parlare della burocrazia che a chiamarla kafkiana sarebbe abusare di un eufemismo letterario.
Il clima di individualismo e di violenza di una popolazione in cui ognuno sembra, in ogni circostanza, armato contro l’altro è divenuto intollerabile. La sinistra politica ha delle responsabilità enormi ma questo traboccare di truce verbalità che diventa anche manesca sempre più spesso, ci sia concesso di dirlo, è stato sdoganato dalle giunte di destra. Ora ci sono quelli che non sono di né destra e né di sinistra ed è meglio guardare e passare.
Per la mia piccola figliola, fra le cose che più ho amato e che vorrei che anche lei potesse amare, c’è anche l’ancestrale sentimento dell’appartenenza a una delle città più belle del mondo. Ma cosa può riservare oggi questa città a suoi figli più piccoli? Siamo sicuri che fra l’esercitare con cura la patria potestà non ci sia anche il dovere di pensare di andarsene? Interrogativi lancinanti per chi le sue radici le ha nelle sbucciature sull’asfalto di questo suolo che veramente ha creduto eterno. GIUSEPPE CAPPELLO