Il flopdelle politiche attive del lavoro, tra conflitti d’interesse e risultati scarsi
IJOBS ACT
Le Politiche attive del lavoro sono nate nel 2015 con il Jobs Act, fanno capo a un’agenzia del ministero del Lavoro, l’Anpal. La controllata Anpal servizi attua i programmi Ue sul lavoro, gestendone i fondi l 19 maggio, l’Agenzia per le politiche attive del lavoro (Anpal) ha diffuso una nota intitolata “Garanzia Giovani, confronto europeo a tre anni dall’avvio”. Leggendola, sembra che l'Italia abbia fatto meglio rispetto agli altri per quanto riguarda le “uscite positive”, ossia la percentuale di ragazzi che, una volta fuori dal programma, stanno lavorando, facendo stage o formazione. Nel nostro Paese, a sei mesi dall’uscita, sarebbero il 70% contro il 45% generale. Attenti osservatori hanno però notato che è un tasso gonfiato: calcola anche chi beneficia di misure offerte dalla stessa Garanzia Giovani. Se si prendono i risultati a 12 e a 18 mesi dall’uscita, infatti, la prestazione italiana scende sotto la media europea.
Morale: la relazione riporta solo quello che fa comodo, tralasciando il resto. Insomma, è una marchetta. In effetti, l’Anpal ha interesse a descrivere come un successo Garanzia Giovani. La super- agenzia presieduta da Maurizio Del Conte ha in questo un doppio ruolo: gestisce il programma europeo per gli under 29 disoccupati e contemporaneamente ne monitora i risultati. La rete delle politiche attive del lavoro, nata nel 2015 con il Jobs Act che vi ha messo Anpal al vertice, è piena di conflitti come questo. Il disegno di Matteo Renzi e del ministro Giuliano Poletti voleva essere una rivoluzione, ma si è tradotto in un sistema ingarbugliato che confonde sistematicamente controllori e controllati e non offre prospettive neanche ai tanti precari impiegati negli stessi servizi di collocamento. In tutto questo, i risultati stentano ad arrivare.
La storia
UN CONFLITTO di interessi riguarda il capo della segreteria tecnica di Poletti. Bruno Busacca, che come il ministro viene dalla Legacoop, occupa oggi due posti alquanto incompatibili. Oltre che al dicastero di Via Veneto, siede anche – su nomina del governo – nel consiglio di amministrazione dell’Anpal che, secondo il Jobs Act, “è posta sotto la vigilanza del ministero del Lavoro, che ne monitora periodicamente obiettivi e corretta gestione delle risorse”. Se Poletti, svolgendo questa funzione di controllo, volesse eccepire qualcosa, dovrebbe quindi sconfessare un cda nel quale è presente un suo stretto collaboratore.
Due poltrone sono meglio che una sola pure per il presidente Del Conte, che infatti è anche amministratore unico della società in house Anpal servizi. Questa spa pubblica funge da soggetto attuatore dei programmi Ue sul lavoro, dei quali l’Anpal è autorità di gestione. Dunque, Del Conte, presiedendo l’agenzia, tiene i soldi dei Pon (Programmi operativi nazionali); il direttore generale Anpal Salvatore Pirrone li affida ad Anpal servizi (quindi di nuovo a Del Conte) e svolge i controlli sul piano amministrativo. Altre funzioni che si sovrappongono.
A giugno Anpal ha passato 357 milioni ad Anpal servizi; ben 15 serviranno per la comunicazione. Nella società in house i precari sono il 64%; il piano triennale prevede nuove assunzioni di esperti e tutor ma non a tempo indeterminato. Nel 2020, 1.641 dipendenti, quasi l’80%, saranno collaboratori o contratti a termine. Tra i precari storici dell’ente, solo chi oggi ha almeno quattro anni e mezzo di anzianità può sperare - rinunciando alle pretese pregresse - nella stabilizzazione. Non un automatismo, ma un meccanismo a discrezione dei vertici che in questi giorni stanno convocando alcuni, tra i lavoratori che rispettano i requisiti, per la firma del contratto permanente. Non è chiaro però come li stiano scegliendo. Chi è escluso deve sostenere una nuova prova di selezione per essere confermato, comunque a termine. Se anche l’avrà superata, non sarà certo di essere riassunto: la società ha il diritto di ridurre i posti disponibili anche a esame concluso, dice il bando.
La scheda
L’Agenzia per le politiche attive del lavoro (Anpal) gestisce i fondi europei per i giovani fino a 29 anni disoccupati. È nata nell’ ottobre 2015 in attuazione del Jobs Act che, in barba alla semplificazione, ha aumentato gli enti pubblici nel settore: prima erano Italia Lavoro e il centro ricerche Isfol, ora a questi (diventati Anpal servizi e Inapp), si è aggiunto, al vertice, l’Anpal
Poche certezze per gli operatori, dunque, e un assurdo mix di ruoli per chi siede ai vertici. Questo schema che fa coincidere compiti tra loro incompatibili non è spiegabile neppure in una logica di razionalizzazione: il Jobs Act non ha ridotto gli enti pubblici ma li ha moltiplicati. Prima della riforma c’erano solo Italia Lavoro e il centro ricerche Isfol; oggi a questi, diventati Anpal servizi e Inapp, si è aggiunto il terzo soggetto al vertice della piramide: l’Anpal, appunto. L’Inapp, tra l’altro, ha il compito di valutare l’operato dell’agenzia, ma da essa dipende sul piano finanziario. Metà del budget in mano all’ente di ricerca, infatti, arriva da Del Conte. Ennesimo pasticcio, anche questo da rivedere per garantire l’autonomia dell’ex Isfol.
“L’IDEA di costituire Anpal – spiega Gianni Bocchieri, dirigente della Regione Lombardia ed esperto di politiche attive – è stata mutuata da due modelli: quello tedesco e quello olandese. L’ibrido venuto fuori prefigurava un esito referendario che avrebbe dovuto determinare un passaggio di competenze dalle Regioni al ministero del Lavoro”. La riforma costituzionale, insomma, accentrava le politiche attive del lavoro, sottraendole agli enti locali. Il 4 dicembre gli italiani hanno detto No ma ormai la super-agenzia nazionale era nata. Ancora un guazzabuglio. Non si tratta di un alibi ma di un’aggravante: se anche il referendum fosse andato come Renzi sperava, c’è il sospetto che l’Anpal, così come costruita, non avrebbe comunque funzionato. La promessa che i licenziamenti più facili sarebbero stati bilanciati da un sistema efficiente di collocamento e reinserimento per chi è senza lavoro è stata tradita. Il nuovo sistema ha prodotto finora una sola politica attiva: l’assegno di ricollocazione, che da marzo coinvolge solo un campione sperimentale di 30 mila disoccupati e – secondo dati ufficiosi – ha visto adesioni inferiori al 10%.
Il miraggio della riforma Renzi
La promessa era che a fronte dei licenziamenti facili ci sarebbero stati efficienti programmi di ricollocamento. Ma è un fallimento