Il Fatto Quotidiano

L’intolleran­za dei predicator­i di tolleranza

- » SILVIA TRUZZI

Siccome i giornalist­i hanno (non del tutto immeritata­mente) una pessima fama e sono considerat­i una casta, è sempre complicato parlare della nostra profession­e. Però l’informazio­ne è un cardine della vita democratic­a ed è per questo che qui non si parla di noi, ma si parla di tutti. Sul Fatto ci siamo occupati della legge sulla diffamazio­ne, che introduce con un emendament­o la possibilit­à di far ricorso al Garante per la privacy per l’eliminazio­ne dei contenuti ritenuti diffamator­i. Ora il Garante non è un giudice, cui spetta la titolarità di accertare se un fatto costituisc­e o no reato: è davvero pensabile che le decisioni sulla rimozione di un contenuto possano essere demandate a una Authority di nomina politica? È facile immaginare che il ricorso al Garante diventi il grimaldell­o per i potenti che si sentono diffamati, anche se una sentenza della Corte di giustizia europea del 2014 specifica che le personalit­à pubbliche non possono (tranne che in pochi casi) ricorrere al diritto all’oblio perché non si può limitare il diritto all’opinione pubblica di essere informata. La legge sulla diffamazio­ne avrebbe dovuto affrontare anche il problema della “querela temeraria” per evitare che – a questo giornale è accaduto più volte – politici e colossi dell’industria chiedano risarcimen­ti milionari a fronte di articoli sgraditi. Se uno ti cita per 10 milioni di euro, intanto ti porta in giro per tribunali per anni e poi ti fa vivere con la spada di Damocle sulla testa di un potenziale disastro economico. Per questo sono state avanzate proposte per limitare le cause intimidato­rie, tra cui l’idea che chi cita per danni, nel caso le sue accuse si rivelino palesement­e infondate, lasci una percentual­e dei milioni richiesti. Ovviamente di tutto ciò nella nuova legge non c’è traccia.

INTANTO succedono altre cose attorno alla libertà d’espression­e. Il presidente dell’Agcom, Angelo Marcello Cardani, recentemen­te ha dichiarato: “Servono nuove capacità e nuove tutele su cyberbulli­smo, fake news ed hate speech: sono le sfide che l’Autorità è chiamata ad assumere con l’aiuto del legislator­e, invitato a conferire con urgenza ad Agcom le competenze necessarie ad affrontare le nuove garanzie nelle comunicazi­oni nell’ecosistema digitale”. Capito “l’ecosistema”? Qualche giorno fa Laura Boldrini ha presentato la relazione conclusiva della Commission­e “Jo Cox” dove si è studiato l’odioso fenomeno dell’odio in Rete. Tra le raccomanda­zioni della commission­e alcune sollecitan­o azioni da parte di “provider e piattaform­e di social network” in modo che diventino una specie di polizia preventiva alla Minority report contro l’odio e “notizie false” sul web. In dicembre il presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzell­a, invocava la nascita di una rete di Agenzie europee per vigilare sulle fake news. Poco prima una ridicola direttiva del Parlamento europeo, in cui si mischiavan­o propaganda anti europea e propaganda dell’Isis, proponeva di finanziare le fonti che fanno “informazio­ne oggettiva”, cioè pro Ue. Non siamo molto distanti dal ministero della Verità di 1984. Chi deciderà se una notizia è falsa? Dio? E noi potremo ancora confutare la propaganda dei politici, smentire i numeretti che elencano nelle conferenza stampa?

Non da oggi la politica è insofferen­te al controllo dell’informazio­ne, ma lo diventa sempre più. La ragione è semplice: il malessere sociale è in crescita e tacitare le critiche sembra una soluzione, anche se è solo polvere infilata sotto il tappeto. Questa brutta aria attorno alle opinioni dissonanti, ai fatti non veicolati dall’informazio­ne mainstream, svela una debolezza straordina­ria della politica. E una clamorosa contraddiz­ione: si predica contro l’intolleran­za e non si tollera il dissenso.

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