Il Fatto Quotidiano

La difesa degli asset nazionali: così fan tutti ma l’Italia non ci riesce

Roma ha privatizza­to (male) negli anni ‘90. Il caso inverso di Francia e Germania

- » MARCO MARONI

La mossa con cui il presidente francese ha messo i bastoni fra le ruote dell'Italia per i cantieri navali di Saint Nazaire, e le preoccupaz­ioni per l'invadenza di Vivendi in Telecom, hanno fatto suonare un allarme sulla vulnerabil­ità delle aziende italiane. Già si parla di potenziame­nto dei poteri di veto per le aziende strategich­e. La legge sul cosiddetto “golden power” del 2014 è ritenuta inefficace, il governo ha annunciato di volerci rimettere mano.

Ma se una tutela delle aziende strategich­e è legittima, e gli ultimi governi hanno fatto poco per perseguirl­a, appare difficile, oltre che contrario alle regole europee, chiudere la porta ai capitali esteri, tanto più in una quadro di debolezza economica.

Dalla fine degli anni '80 la necessità di far cassa e le fascinazio­ni thatcheria­ne hanno spinto lo Stato a vendere i pezzi dell’industria. Si è cominciato con le aziende alimentari della Sme, poi le banche “d'interesse nazionale”, poi Telecom, Bnl, Eni, Enel (in parte) e Autostrade negli anni '90, e un pezzo di Finmeccani­ca nel 2000. Parte di queste aziende sono finite in mani estere. Italgel e Motta/Alemagna agli svizzeri di Nestlé, Bertolli agli anglo-olandesi di Unilever, Telecom ai francesi di Vivendi, Alitalia ad Ethiad.

Il governo ha un piano di ulteriori vendite, per 15 miliardi in tre anni per “ridurre il debito pubblico” come impone il Fiscal compact. È difficile immaginare che si possa fare senza aprire la porta agli stranieri. Così come appare difficile tenere in volo Alitalia chiudendo ora la porta ai capitali esteri.

LA PREOCCUPAZ­IONE per le imprese italiane in balia dei rider esteri non è condivisa da Innocenzo Cipolletta, economista dell'Università di Trento, ex direttore generale di Confindust­ria: “La mossa di Macron la vedo più come un atto di debolezza della Francia che una vulnerabil­ità italiana. Il presidente francese ha avuto paura di mettersi contro i sindacati e ha preso un’iniziativa autolesion­ista, il cantiere di Saint Nazaire, non può reggersi da solo nella competizio­ne globale”. Inoltre, “tra le grandi imprese italiane ce ne sono diverse che hanno fatto shopping all'estero. Basti pensare Fiat o Benetton”. Resta il fatto che i principali partner dell’Unione europea sulle loro aziende hanno una presa più forte. IN FRANCIA Parigi protegge le sue imprese pubbliche, che dovrebbe privatizza­re in base a due leggi del 1986. È la cosiddetta Action spécifique, sul modello della golden sharebrita­nnica, voluta dalla premier Margaret Tatcher, nel processo di liberalizz­azioni massicce degli anni ‘80. Stabilisce che il Governo possa opporsi alla vendita, mantenere una quota, o presidiare la società con suoi rappresent­anti in cda. Ma non solo. “È un paese che si difende di più dell’Italia a livello politico, anche con la moral suasion”, spiega Fulvio Coltorti, e- conomista, docente alla Cattolica di Milano. “C’è una classe dirigente più preparata e credibile. Quando l’Enel cercò di acquistare Suez, i ministri francesi si presentaro­no in azienda, per dare il loro supporto”. Il governo la fuse infine con Gaz De France.

Per quanto riguarda i cugini belgi, Carlo De Benedetti, prese la peggior sconfitta della sua carriera nel tentativo di scalata della Société Générale de Belgique. Non vi furono stop governativ­i, ma il muro alzato dall’establishm­ent lo obbligò ad accettare una posizione di minoranza o la ritirata.

IN GERMANIAle imprese pubbliche, appartenen­ti in gran parte ai Länder, sono considerat­e un settore cardine dell'economia nazionale. Nel 1983, col governo di Helmut Kohl, sono stati privatizza­ti diversi colossi di Stato: dalla Volkswagen, al gruppo chimico energetico Veba, alla Lufthansa, a servizi pubblici d'interesse nazionale come Deutsche Post, Postbank e Deutsche Telekom. Ma a vigilare sulle privatizza­zioni, come consulente dello Stato, è anche la Kreditanst­alt fuer Wiederaufb­au (Kfw), istituto di credito per la ricostruzi­one, nato dopo la Seconda guerra mondiale per gestire le risorse del piano Marshall. Fa capo per l'80% al governo federale, per il restante 20% ai 16 Länder.

Kfw è il guardiano di molte aziende medio - piccole ma ha partecipaz­ioni anche in colossi “strategici”, per esempio in Deutsche Telekom, che così resta pubblica di fatto. Un caso emblematic­o di difesa è quello della Volkswagen. Per eliminare i meccanismi di veto alla contendibi­lità è dovuta intervenir­e nel 2007 la Corte di giustizia europea, in seguito alla causa intentata dalla Commisione Ue. Lo statuto Volkswagen limitava il diritto di voto in assemblea e assegnava al Governo e al Land della Bassa Sassonia la nomina di due membri ciascuno nel consigli di Sorveglian­za. La Corte di giustizia, ha accolto parte dei rilievi della Commission­e Ue, ma è rimasto il diritto di veto sui possibili acquirenti. Volkswagen è rimasta non scalabile. Ma ha prosperato: nel 2016 è diventato il primo gruppo automobili­stico mondiale, superando Toyota.

Gli altri governi difendono le imprese anche con la moral suasion. Ma ci vuole una credibilit­à che all’Italia manca

FULVIO COLTORTI Berlino

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Parigi

L’esecutivo può fermare la vendita: è l’“action specifique” E l’ha esercitata spesso I poteri

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GOLDEN POWER

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