QUEL LIBRO È PROPRIO DI RENZI. PURTROPPO
Non mi sono messo a leggere l’A va nti di Matteo Renzi sine ira et studio. Con tutto quello che avrei potuto leggere sine ira et studio, figuriamoci se mi sarei messo a leggere proprio l’A vanti di Matteo Renzi. A spingermi alla lettura è stata, confesso, la convinzione di potervi trovare conferme alla diffidenza suscitata in me da Renzi fin dall’inizio della sua folgorante carriera. Diffidenza: non l’odio covato nell’inconscio di cui ha parlato uno psicanalista per spiegare il perché e il percome dell’antirenzismo. Così almeno credo: ma quando c’è di mezzo l’inconscio, nessuno può pretendere di conoscere se stesso meglio di quanto possano conoscerlo gli altri. Il che vale anche per gli psicanalisti, sicché a chi considera le opinioni altrui viziate da un odio che affonda nell’inconscio, si può sempre replicare che le sue potrebbero essere viziate dall’amore
(nel caso dello psicanalista in questione, ricambiato, vista la dichiarata ammirazione con cui Renzi lo cita).
Ma, per rimanere al Tacito di sine ira et studio, obiettività significa giudicare neque amore et sine odio.
Che la mia scarsa simpatia per il protagonista di questo autoritratto dell’autore da leader non sia frutto di un odio cieco, penso possa essere dimostrato dal fatto che mi è bastato leggere il libro per emendarmi di uno dei miei pregiudizi negativi nei suoi confronti, anzi di due. Mi sono convinto che non merita la fama di bugiardo che lo perseguita e, prima ancora, che il libro se l’è scritto da sé, invece di farselo scrivere da qualcun altro come davo per scontato: che so, da un Baricco, sostenitore antemarcia del Partito di Renzi prossimo venturo, come si apprende proprio dal libro.
Rinviando ad altra occasione il tentativo di dimostrare che la sua fama di bugiardo appare nel suoAvanti una fama usurpata, qui vorrei sottolineare che questo libro Renzi non solo non lo ha fatto scrivere, ma nemmeno lo ha fatto leggere da qualcun altro prima di pubblicarlo; pagando per questo anche un prezzo perché, con il daffare che aveva, ne è derivata un po’ di confusione qua e là; da cui sarebbe però una volgarità prendere spunto per insinuare il sospetto di un sia pur leggero stato confusionale persistente nell’autore a seguito del kappaò del 4 dicembre.
Che Renzi non solo non si sia fatto scrivere il libro da altri, ma da altri non se lo sia nemmeno fatto leggere prima di pubblicarlo, emerge da più d’un indizio. Intanto, se glielo avessero scritto o letto altri, gli avrebbero sicuramente fatto notare che chi nega di essere responsabile della personalizzazione del referendum non può chiamare “campagna elettorale” (con un lapsus che non sarebbe sfuggito a Freud) la sua campagna referendaria. E avrebbero anche osservato che, data l’estraneità della materia elettorale alla riforma felicemente abortita, non ha senso dire, come nel libro è detto, che la vittoria del sì al referendum avrebbe consentito agli italiani di sapere la sera delle elezioni chi li avrebbe governati. Per rimanere in tema, gli avrebbero poi sicuramente sconsigliato di far seguire alla considerazione che Donald Trump è stato eletto pur avendo riportato meno voti popolari di Hillary Clinton, la chiosa ammiccante aggiunta nel libro, e cioè: “sarebbe curioso conoscere la tesi della nostra Corte costituzionale in proposito, vista la giurisprudenza sulle leggi elettorali maturata negli ultimi anni”. Curiosità legit- tima, gli avrebbero sussurrato, e tuttavia inconcepibile in un laureato in giurisprudenza, il quale non può ignorare che la costituzionalità delle leggi si giudica valutandone la conformità alla costituzione dell’ordinamento del quale fanno parte, sicché una norma incostituzionale in un ordinamento può benissimo non esserlo in un altro. Nella fantasiosa ipotesi che fosse chiamata a dire la sua sull’elezione di Trump, la “tesi” della nostra Corte costituzionale sarebbe prevedibilissima perché la procedura per l’elezione del Presidente degli Stati Uniti è stabilita all’art. 2 della Costituzione (degli Stati Uniti), ed è precisamente quella seguita anche per l’elezione di Trump.
Tre indizi, si suol dire, valgono una prova. Ma a suffragare la conclusione che il libro di Renzi è proprio farina del suo sacco, ce n'è anche un quarto. A chiunque fosse stato chiamato a dargli una mano, infatti, non sarebbe sfuggito il doppio lapsus nel quale incorre l’autore quando, alludendo con disprezzo pienamente condivisibile a quanti hanno cominciato ad abbandonarlo non appena la sua fortuna è parsa declinare, evoca “l’italica arte della discesa dal carro del vincitore”. In realtà, quella da lui denunciata era semmai una discesa dal carro dello sconfitto, e l’arte richiamata non riguarda la discesa, ma la salita sul carro del vincitore (per il percorso inverso la metafora ricorrente, se può interessare, è quella dei topi che abbandonano la nave). C’è da chiedersi se altrettanto disprezzo Renzi aveva riservato a quelli che sul suo carro di vincitore a suo tempo erano saliti. Forse sì.