Tagli alla Difesa? No: alla scuola e al welfare
Il decreto che applica la manovrina
■Ministeri in agitazione per il Dpcm di Padoan che distribuisce 1 miliardo di risparmi nello Stato centrale: in proporzione il conto più salato è per Istruzione e Lavoro. C’è un mistero: il testo è sparito da due settimane
ABruxelles, dicono, non accettano più i pagherò. E allora della manovrina sul deficit di questa primavera vogliono vedere realizzate fin d’ora anche le promesse sul futuro: qui si parla, in particolare, dei tagli ai ministeri da un miliardo l’anno per il triennio 2018- 2020. E qui, arriva la sorpresa: Pier Carlo Padoan aveva promesso ai colleghi che non c’era da preoccuparsi, che bastava la spending review già realizzata e invece s’è scoperto di no e a farne le spese, in proporzione alle capacità di spesa, sono il ministero dell’Istruzione e quello del Lavoro.
Problema: il testo, che Il Fatto Quotidiano ha potuto visionare, pur approvato in Consiglio dei ministri il 28 giugno, registrato dalla Corte dei Conti l’11 luglio e tornato a Palazzo Chigi da un paio di settimane, è sparito. Tradotto: non è ancora stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, fatto bizzarro per un Dpcm (decreto della presidenza del Consiglio) che imponeva ai ministri di dettagliare i nuovi tagli entro il 20 luglio.
FATTI E NUMERI. Come detto il decreto di Palazzo Chigi è attuativo della manovrina di primavera impostaci dalla Commissione europea e delle successive promesse del Def 2017 (Documento di economia e finanza). Unici paletti fissati dal governo: restano fuori “investimenti fissi lordi, calamità naturali e d eventi sismici, immigrazione e contrasto alla povertà”. Il resto è già messo nero su bianco per i prossimi tre anni: i ministeri risparmino o ci pensa il Tesoro coi soliti tagli lineari e, per punizione, “l’importo mancante sarà maggiorato del 20%”.
Padoan, in realtà, per alleviare il conto dei colleghi, è riuscito a mettere insieme metà della cifra: mezzo miliardo lo mette il ministero dell’Economia, per il resto servono sudore, lacrime e sangue, specie se si tiene conto che siamo al sesto anno di sostanziale austerità. E veniamo a chi pagherà di più. Intanto, il testo è fatto in modo che la spesa da tagliare sia quella corrente, mentre “valgono meno” i risparmi su personale e investimenti: in questo contesto, il ministero dell’Istruzione dovrà sforbiciare 86 milioni nel 2018, 92 milioni l’anno dopo e 94 nel 2020. E dire che la struttura guidata da Valeria Fedeli l’anno prossimo era in lista per ricevere soldi, non per perderli. La lista dei programmi a rischio è lunga: sostegno agli alunni disabili, borse di studio, attività extra-curriculari, etc.
E ancora: Lavoro e Politiche sociali (Giuliano Poletti) perderanno 90 milioni l’anno prossimo, poi 87 e infine 82. Il contributo della Difesa, invece, sarà solo di 25 milioni l’anno, quello dello Sviluppo economico di 18 milioni: entrambi meno dei già malmessi ministeri della Salute (da 27 a 30 milioni l’anno nel triennio) e della Giustizia (circa 40 milioni l’anno da qui al 2020). Con- to salato, ma non in proporzione, per il mega-dicastero delle Infrastrutture e Trasporti: da 127 a 120 milioni l’anno dal 2018 al 2020.
GLI INTERESSATI, neanche a dirlo, non hanno preso bene questo nuovo round di tagli che si abbatterà sulla spesa già programmata. Questo malu- more, si dice nei palazzi romani, ha avuto un effetto paradossale sull’iter del decreto: pronto dal 19 luglio, non ha bisogno nemmeno del via libera delle commissioni parlamentari per entrare in vigore, eppure è sparito. E mentre andiamo in stampa ancora non è approdato in Gazzetta Ufficiale. Non è chiaro, peraltro, se il presidente della Repubblica lo abbia già firmato oppure se sia in corso.
E dire che il rigido meccanismo di programmazione imposto da Bruxelles prevedeva che i ministeri proponessero da sé dove tagliare entro il 20 luglio, in modo che la Ragioneria generale dello Stato potesse verificare in tempo per la legge di Bilancio di questo autunno se gli effetti dei risparmi fossero sufficienti ad arrivare a un miliardo l’anno.
IN CASO non bastassero, il Dpcm prevede che sia il ministero dell’Economia a ridurre le spese con un 20% in più per chiarire la gravità della cosa. È appena il caso di dire che, da impegni presi a Bruxelles, è probabile che questi non siano neanche gli unici tagli per il 2018: l’idea che la spesa dello Stato (a tutti i suoi livelli) sia anche domanda interna e faccia crescere il Pil continua a rimanere sconosciuta tanto a Roma che in Belgio.
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