Il Fatto Quotidiano

SCUSA PIERO, IO HO VISTO L’UNICORNO

E LA CHIAMANO ESTATE Crescevo con il mito di Angela, ma un giorno...

- » GIAN LUCA FAVETTO

L’unicorno è un’epifania e tutto lo scetticism­o si porta via. Quando capita davanti, timbra occhi e memoria. È un’apparizion­e che si fa largo tra le nebbie del reale e non svanisce, non scolora, non dimentichi più.

So bene che non esiste, l’unicorno. Non nello spazio e nel tempo in cui i nostri corpi sono inscritti. Esiste nel sogno e nella letteratur­a, volendo. Ma sogno e letteratur­a sono un altro spazio e un altro tempo, e non erano con me –o io non ero in loro–, quando con questi occhi, come si dice, ho visto l’unicorno, gli occhi di uno cresciuto con Piero Angela come nume tutelare, come bussola tra il vero e il falso della vita. Adesso mi prendo più libertà rispetto al pensiero, all’avvolgente talento divulgativ­o di Piero Angela. Ma quando ero ragazzo, Piero Angela era il vocabolari­o, l’encicloped­ia, la legge.

Equesto per colpa o merito di mia madre, che mi ha fatto una testa così con Piero Angela. Per mia madre, Piero Angela era, ed è ancora, il giovanotto che suonava il pianoforte mentre lei e le compagne facevano lezione. Tutti i meriti e l’autorevole­zza di Piero Angela in casa nostra partono da lì, da quando a Torino, a Villa Glicini, nel cuore del Valentino, Piero Angela suonava il pianoforte in una scuola di danza, e mia madre era un’adolescent­e che si alzava sulle punte, faceva plié e grand jeté, sperando in un futuro in teatro invece che in fabbrica.

SONO COSEche non si dimentican­o, soprattutt­o se, d’improvviso, mia madre ha dovuto smettere e ci ha fatto una malattia; mentre Piero Angela è finito in Tv e ha cominciato una encomiabil­e carriera di sentinella della ragione, della scienza, del dimostrabi­le. Indiscutib­ile per me, anche se ho imparato dalla vita che persino l’indimostra­bile può essere vero, mentre la realtà, a volte, è più apparente che vera. E viceversa.

Comunque, cresciuto con Piero Angela, so che l’unicorno non esiste. Eppure un giorno, in questo spazio e questo tempo, l’ho visto. Ero con Giorgio, Elena, Pierangelo e, mi sembra, anche ‘l Maestru, che ovunque vada porta il suo sax e suona, o forse no, forse ‘l Maestru è rimasto indietro con Anna ed è arrivato dopo.

Facevamo una delle nostre camminate in montagna. Venticinqu­e anni fa. Agosto. In Valchiusel­la, una lingua di eporediese sopra Ivrea, parallela alla Valle d’Aosta.

Vai in montagna e parti presto la mattina. Lasci l’auto, zaino in spalla e cammini. Su dritti da Traversell­a: il Mont Ajù, la Giassa del Gallo, il Colle di Pian Spergiurat­i, la Torretta della Reja Soglia… A Punta Cavalcurt non siamo arrivati, abbiamo preso la Bocchetta del Lupo e siamo scesi al Rifugio Chiaromont­e.

E cosa facciamo, noi che non siamo alpinisti e neanche veri sportivi? Mangiamo e beviamo: polenta concia, spezzatino, salsiccia, formaggi, Barbera, Carema e un’insalata di pomodori, ché Pierange- lo sosteneva, e sostiene ancora, che un’insalata di pomodori dopo tutto quello che mangi, ti purifica, ti sgura si dice da noi. E dopo aver mangiato, mangiato e ben bevuto, dopo esserci riposati per il pasto più che per la camminata, scendiamo.

Mentre scendiamo, scendono anche le nuvole e sale la nebbia. Sono quasi le cinque. Siamo a duemila metri. In una decina di minuti arrivano la sera e l’autunno, e ci ritroviamo in un paesaggio scozzese.

Io faccio l’andatura. Vado bene in discesa. Sotto il Chiaromont­e, ci sono un paio di alpeggi di un verde brillante, un terreno ondulato con spunzoni di roccia che, fra la nebbia e le nubi, sembra il mare. Camminiamo in un grigio luminoso, a volte più denso, a volte più rado. L’a- ria è fredda.

Non so dire se lo vedo io per primo, o Pierangelo. In mezzo a noi, Giorgio sta parlando non so più di cosa. Pierangelo esplode in uno dei suoi entusiasmi infantili che gli strizzano la voce: grida come un’aquila e si agita come un bambino. Io me n’ero già accorto: eccolo lì, bianco, solenne, inatteso, su una curva del sentiero, all’Alpe del Lion, di là d’un ruscello, la lunga criniera sul collo, il muso puntato verso di me, che gli andavo incontro… E quel coso, quel corno che è una lancia dritta sulla fronte.

Lo vedo – non è la nebbia, non è il vino, non la fatica, né il sogno, né la letteratur­a. Un’eclatante epifania. Un equus possente con il corno. Un unicorno, padrone del territorio e dell’immaginazi­one.

Pierangelo urla di meraviglia. Giorgio con il suo tono monotono domanda: “E quello cos’è?”.

IO CONTINUO a guardare l’apparizion­e e l’a pp ar iz io ne guarda me. Non c’è sorpresa. C’è il tempo e lo spazio delle cose che accadono. Lui scuote il muso e soffia dalle nari. Mi concentro per non perdere l’immagine, non perdere il momento.

Vediamo tutti cos’è, anche Elena, dietro di noi, che da anni vive a Parigi e mescola francese e italiano. Con la sua voce da favola, soffia:

“Incroyable, u

ne licorne! Porta fortuna!”. L’unicorno o liocorno in francese è femminile, la licorne . Guardiamo tutti Elena, perché la sua voce e il suo francese sono un incanto, è un incanto lei.

Quando mi volto di nuovo, l’unicorno non c’è più. L’apparizion­e, se l’è mangiata la nebbia. Scavalco il ruscello, risalgo il costone di qualche metro. Sento come un galoppo che si allontana. Ancora adesso che ne scrivo, lo sento.

Anna e ‘l Maestru sono stati i primi a non crederci. Poi, tutti gli altri. Allora abbiamo smesso di raccontare. Di tan- to in tanto, con Pierangelo, ricordiamo la nostra licorne e ricordiamo Elena. Sulla fortuna che avrebbe dovuto portare, non so dire, però siamo ancora tutti vivi. Fernão Mendes Pinto, esplorator­e portoghese del XVI secolo che ha raccontato i suoi viaggi favolosi tra Africa, India, Giava, Cina, Giappone, accusato spesso di troppa fantasia e invero sim igli anz a, ha scritto: “Non mi meraviglie­rò se chi leggerà questa storia non crederà a ciò che riferisco; s pe ci al me nt e coloro che non hanno viaggiato, perché chi ha visto poco non crede molto, mentre chi ha visto molto crede di più”.

Se penso all’unicorno, vedo ancora la nebbia, la Scozia nella mia valle, le onde del mare in montagna e Elena com’era allora, sento la sua voce e un galoppo che si allontana. Quando vedo Piero Angela in Tv, lo penso al pianoforte: suona invece di parlare. E quasi subito mi appare l’unicorno, che non dovrebbe esistere. Scuote il muso e soffia dalle nari. Una volta o l’altra, penso, si alza sulle zampe, fa un plié, un grand jeté e comincia a danzare.

Sogno o son desto?

Cresciuto con il giornalist­a, “sentinella della ragione”, so che quell’animale non esiste Eppure un giorno l’ho visto

VETTE ONIRICHE

Mentre stiamo scendendo, sale la nebbia. Sono quasi le cinque. Siamo a duemila metri: ci ritroviamo in un paesaggio scozzese

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