LETTERA di un “lentigrado” a Usain Bolt
Atto finale Domani sera a Londra gli ultimi cento metri di uno dei più grandi atleti della storia. Tutti gli addii si assomigliano, sempre malinconici. E questo non fa eccezione
Caro Usain Bolt, sono un lentigrado arrabbiato con te. Anzi, credo di condividere questo sentimento insieme a milioni di altri esseri umani normali che ti ammirano e ti adorano, e invidiano – in senso buono, non ostile – la tua formidabile (ed implacabile) falcata, lunga come una Cinquecento. Sai probabilmente perché: domani, ai Mondiali di atletica che si disputano in una Londra già Brexit, dove hai già vinto nel 2012 due ori olimpici (il terzo, quello della staffetta, te l’hanno revocato per colpa di un compagno dopato), corri i cento metri per l’ultima volta. Poi ci lasci. Boltexit.
Il resto, lo immaginiamo. Appenderai le scarpette (beh: scarponi numero 48) al chiodo. Sistemerai la vetrina delle medaglie d’oro (7 ai Giochi, 11 ai Mondiali che spero divengano 12). Ti trasformerai in ricordo. In leggenda lo sei già. Da quando hai fatto irruzione nel piccolo grande universale mondo dell’atletica leggera, sbaragliando avversari e pregiudizi, grazie al talento e alle tue lunghissime gambe.
SOCRATE era solito dire ai suoi allievi che i “corridori hanno gambe oltremodo sviluppate”. Come vedi, sei nella Storia. Hai quasi 31 anni: li compirai il 21 agosto. Ho festeggiato il tuo compleanno ai Giochi di Pechino, perché riuscii a mescolarmi coi fotografi a bordo campo, la sera in cui fosti premiato, il giorno dopo aver trionfato nei 200 metri stabilendo il nuovo primato mondiale (19”30 nonostante il vento contrario di 0,9 metri al secondo): la premiazione durò una vita... Peccato, Usain, che tu abbia deciso di smettere: forse temi di perdere. Vorresti un’uscita di scena clamorosa: sul gradino più alto del podio. Il mattatore stanco di gloria: “Lascio senza eredi”, hai detto con finto rammarico. Dietro, il vuoto: comparse. Sei triste, in verità: l’usura del tempo è una congiura impietosa, non risparmia nessuno, neanche gli dei della corsa.
Abbandonare non è mai facile. Ci provò Pietro Mennea, la Freccia del Sud: interpretava i 200 metri come una tragedia greca. Rabbia e sofferenza. Fatica immensa e sacrifici indicibili. Smise due volte, da detentore di un record del mondo: 19”72, Città del Messico, 1979. Durò sino al 1996 (!). Mennea divideva la gente come Bartali e Coppi. O ti piaceva. O lo detestavi. Qualcuno disse che i rientri distruggeva- no il suo mito, “ma il mio mito rimane solido, lo dimostra la mia longevità, quello che ho fatto nel passato. Io sono qui perché mi piace far vedere alla gente che un atleta può durare anche vent’anni nella velocità, quando altri, per motivi svariati, scoppiano nell’arco di tre o quattro stagioni”. Chissà, Usain, potresti anche tu tornare in pista, e riprenderti lo scettro. Mennea il Tenace partecipò a quattro finali olimpiche consecutive nei 200, primo atleta a compiere tale impresa.
L’ADDIO di Livio Berruti fu più soft, in linea con il suo temperamento signorile. Conquistò i Giochi di Roma del 1960, ricordate il volo della colomba bianca che si solleva dalla pista mentre lui batte gli americani? La breve love story olimpica con Wilma Rudolph commosse il mondo. Divenne un simbolo. Lo sport che unisce: lei la “gazzella nera”, lui “l’angelo bianco” (correva leggero ed elegante). Fu quinto alle Olimpiadi del ’64 e andò in finale con la staffetta veloce nel ’68. Lasciò l’anno dopo: aveva trent’anni. Smise senza fanfara. Non c’era ancora l’ordalìa mediatica che affligge oggi lo sport. L’oro di Roma gli valse un premio di un milione e 200mila lire, più una Fiat 500. Fu il campione di un altro tempo. Quello di Eugenio Montale: “Amo l’atletica perché è poesia”.
Così come, tra i tanti addii che hanno puntellato la storia dell’atletica, c’è il drammatico addio di uno dei più grandi corridori d’ogni tempo, il fondista Emil Zatopek. Era quasi imbattibile: ai Giochi di Helsinki del 1952 vinse tre ori, i 5mila, i 10mila e la maratona, che decise di correre all’ultimo minuto e che non aveva mai affrontato in carriera.
Correva con la malagrazia di un boscaiolo, mulinava le gambe, pareva un motore eccezionale sul quale ci si era scordati di montare la carrozzeria. Ansimava come una vaporiera: lo chiamarono “la locomotiva umana”.
Smise con la nazionale nel 1957. Ma continuò a correre, nella sua vita difficile. Contro il declino. Contro il regime comunista della sua Cecoslovacchia che invano lo spiava e gli limitava le trasferte. Finirà nelle miniere d’uranio, perché sosteneva Dubcek. Ultima immagine: corre con la divisa da spazzino, per inseguire il camion che raccoglie la spazzatura, a Praga. Alla fine, si arrende. Firma l’autocritica.
Verrà confinato nei sotterranei del Centro di Documentazione sullo Sport. Beffardo capolinea della sua esistenza. La vita “è rincorrere il tempo”, disse Carl Lewis, 9 ori, uno più di Bolt, “il figlio del vento”, quando si fece da parte. Difficile correre e sorridere insieme, caro Usain.
Senza eredi L’usura del tempo è una congiura impietosa, non risparmia nessuno, neanche gli dei della corsa