Crisi, suicidi e il dibattito senza i numeri Istat
Ieri altri due casi, ma l’Istituto non calcola più le cause (quelli che si uccidono, però, sono di più)
Astare
al Tolstoj di Anna Karenina le famiglie felici si assomigliano tutte, mentre quelle infelici lo sono ognuna a suo modo. Eppure le storie di cui si parla qui si assomigliano tutte. Ieri la cronaca ce ne ha fornite altre due: quella dell’imprenditore 61enne umbro che si è impiccato perché non riusciva a pagare gli stipendi e quella dell’anziano antiquario di Ferrara sotto sfratto che ha ucciso moglie, figlio e se stesso prima dell’arrivo dell’ufficiale giudiziario.
SONO I COSIDDETTI “suicidi da crisi” per i quali vale - per restare in Russia - quel che diceva Josif Stalin, peraltro esperto della materia: “La morte di un uomo è una tragedia, quella di un milione una statistica”. La statistica, però, pur incapace di raccontare una tragedia, è proprio quel che ci manca; i “suicidi per motivi economici” sono aumentati negli anni o la quota di dolore che la vita impone agli umani è rimasta la stessa? Non c’è risposta ufficiale: Istat dal 2012 ha deciso di non indicare più le cause dei suicidi nei suoi report e non ha più prodotto uno studio come “I suicidi in Italia”, che si fermava al 2009. Le fonti di polizia o giudiziarie - sostenne l’Istituto statistico - sono episodiche e incomplete, è impossibile trarne un quadro coerente con le indicazioni (più esaustive) che arrivano dal settore sanitario e che, però, non riportano ovviamente le cause del gesto.
Istat può certo aver ragione, ma questa scelta – avvenuta nei mesi più caldi delle politiche di austerità in Italia - ha in parte strozzato il dibattito sulla crisi italiana e sulle scelte con cui si è tentato di contrastarla (spesso aggravandola). Nel 2012, per dire, l’allora presidente dell’Istituto - poi ministro del Lavoro - Enrico Giovannini parlò, a proposito dei suicidi da crisi, di “statistica spettacolo” e da allora, periodicamente, esce l’articolo di qualche debunker (cacciatore di bufale) che smentisce effetti della crisi sugli atti di autolesionismo.
In realtà la decisione dell’Istat di non occuparsi più delle cause dei suicidi nega di poter registrare con qualche pretesa di completezza quel che accade nel nostro Paese e lascia il campo a ricostruzioni volenterose quanto incomplete.
È IL CASO dell’Osservatorio sui suicidi per motivazioni economiche di Link Campus University, che all’inizio di quest’anno certificava 709 casi dal 2012 al 30 giugno 2016 così distributi: 89 nel 2012; 149 nel 2013; 201 nel 2014; 189 nel 2015 e 81 nei primi sei mesi del 2016 (+20% sull’anno precedente).
Numeri che sono difficilmente confrontabili con quelli Istat. Gli ultimi cinque anni di rilevazioni ufficiali dicono: 115 suicidi “economici” nel 2005; un calo a 105 nel 2006; poi si passa a 109 nel 2007, a 141 nel 2008 e a 188 l’anno successivo, l’ultimo rilevato. La progressione è notevole, ma ad esempio gli anni più duri (per l’Italia) della crisi scoppiata negli Stati Uniti non sono rilevati: si riparte con gli 89 del 2012 di Link Campus, un dato che poco si lega a quelli Istat.
Una cosa certa, però, si può dire sulla base dei dati dell’Istituto guidato dal professor Giorgio Alleva: gli italiani hanno da sempre una tendenza più bassa della media a togliersi la vita e il dato per decenni è stato in calo, ma dal 2005 al 2014 - ultimo anno disponibile - il numero totale dei suicidi è aumentato così come il loro tasso ogni 100mila abitanti.
Dai 2.892 del 2005 (più o meno come nel 2001) sono passati stabilmente sopra i 4mila (4.291 nel 2013, 4.147 nel 2014): è il 30% in più. Particolare non secondario: l’aumento si registra soprattutto tra chi è in età da lavoro. Sia chiaro, la cronaca non può sostituirsi alla scienza, motivo per cui, però, la scienza non dovrebbe arrendersi alla prima difficoltà.