Meloni non è matura, il migrante politico di destra va da Salvini
In fila È Giancarlo Giorgetti, leghista potente quanto discreto, l’uomo che sta trattando con gli ex An (Alemanno, Storace, etc) per le elezioni
Il migrante parlamentare a destra di Silvio Berlusconi sceglie tra due campioni della pop-politik: Matteo Salvini, leader della Lega Nord e Giorgia Meloni, capo di Fratelli d’Italia, la più vivace tra le sigle nate dalla “destruzione” della destra italiana.
Giovanni Toti – pur dirigente d’alto rango di Forza Italia – costruisce uno squillante rapporto con i leghisti e così vanifica i dissapori cui va incontro nel proprio partito, ma un pari grado dell’attuale presidente della Regione Liguria, in fuga dal Cavaliere, uno che vada a bussare a Fd’I non c’è. Certo, il sindaco dell ’ Aquila, Pierl uigi Biondi, è un attivo militante meloniano, ma Sergio Perozzi, sindaco di Amatrice – la cui potenza mediatica è deflagrante – è nel cuore del Cavaliere, e gli argomenti di zio Silvio, che sa cavare utilità anche dai danni, figurarsi da chi lo abbandona, sanno sempre essere convincenti. Ma questo è un altro discorso...
Migrano, i parlamentari. Ignazio La Russa, già ministro della Difesa nel governo Berlusconi, oggi padre nobile di Fratelli d’Italia, mette però in atto un’operazione raffinata: accogliere, tra i migranti politici in cerca di un solido approdo, Raffaele Fitto. Sulla carta, un bel colpo, ma Meloni – da Roma – dice no.
C’È BEN PIÙ di un calcolo nel progetto del milanese La Russa. L’ex governatore delle Puglie, destinatario di un consenso tutto personale, è un bagaglio di eredità “se ntimentale”. Fitto, infatti, nella stagione vincente dell’alleanza del centro-destra, era il ragazzo a suo tempo scelto da Pinuccio Tatarella– il ministro dell’Armonia –per fronteggiare nel feudi del Tavoliere sia i numeri importanti di Massimo D’Alema, sia la tracotanza “nordista” del parti- to-azienda berlusconiano da dove poi ebbe a uscirsene.
Meloni evidentemente frena l’operazione dello spericolato La Russa per non abbandonare quello che da sempre – già ai tempi del Msi, figurarsi dopo, con An – è stato il karma vaccinaro: continuare a gestire il partito come fosse un’immensa federazione romana e non una presenza comunque collaudata nell’intero territorio nazionale.
Fitto, fiore del giardino moderato, è troppo protagonista di suo per essere incastrato nei codici di Colle Oppio, e anche altri migranti politici a destra con più crediti “identitari” quali Francesco Storace e Gianni Alemanno, rispettivamente ex governatore del Lazio ed ex sindaco di Roma, titolari di una nuova sigla – “Uniti per la sovran ità” – dialogano con Giancarlo Giorgetti.
Vera mente della Lega Nord, Giorgetti – in virtù di un’abilità di tessitura – si ritrova promosso in campo come “nuovo Tatarella”.
CHIAMATO a porre rimedio all’aborto di “Noi con Salvini”, il primo tentativo di radicamento della Lega nell’intero territorio nazionale, Giorgetti – mai avvistato tra gli esagitati, sempre defilato rispetto alla narrazione populista – nelle trattative fa pesare i numeri di un partito con un consenso superiore perfino a quello di Forza Italia e rimanda al mittente ogni tenta- tivo di lusinga “contabile”.
I migranti politici a destra della destra, e cioè tutti i soggetti nati dalle ceneri della fiamma missina, sono paradossalmente ricchi di liquidità. La Fondazione Alleanza Nazionale – grazie alla fatica proletaria dei volontari missini e alle donazioni come quelle della contessa Colleoni a Montecarlo – ha un sontuoso patrimonio ma chi li marita, tutti i legittimi eredi di Giorgio Almirante, non ne sposa poi la dote.
L’ARGOMENTO, più volte, è stato fatto baluginare nelle chiacchierate informali con lo stesso Salvini – pochi i voti, tanti i dindi – ma è il sogno proibito di tutti e i leghisti, visto com’è finita con Umberto Bossi, il tesoriere Francesco Belsito e i diamanti della Lega, vanno cauti: “È assai rischioso stuzzicare il cane che dorme o finge…”, spiegano a Pontida, “e in questo caso il cane si chiama Procura”.
A destra della destra, ancor più che a destra di Berlusconi, si migra e – come nel peggiore incubo populista – ci si adopera per la sostituzione etnica. “Il nostro Nello Musu
m ec i” di cui parla Giorgia Meloni non è proprio suo. La leader dei Fratelli mette cappello sul candidato più forte del centrodestra nelle imminenti elezioni regionali siciliane, in ogni dichiarazione su questo sì, questo no, lo mette in difficoltà con l’immensa prateria moderata, ma Musumeci appunto – che pure proviene dalla storia missina – ha un profilo trasversale.
PRESIDENTE della commissione regionale anti-mafia, Musumeci ha un radicamento territoriale costruito in esperienze amministrative concrete, mai sfiorate dalla magistratura. È una sorta di Don Chisciotte i cui nemici sono tutti tra gli amici e se un riferimento nazionale deve infine darselo, Musumeci, una sua Dulcinea l’ha scelta da un tempo ormai lontano: ed è Stefano Parisi, e mai neppure un Gianfranco Micciché.
In tema di Sicilia, ad accogliere migranti politici, gliene venne male, malissimo, a Fratelli d’Italia con l’operazione
Ismaele La Vardera, sindaco di Palermo, il candidato finto nella campagna elettorale vera scopertosi poi Iena, nel senso delle Iene tivù, infiltratosi tra gli “scafisti” del trasformismo per realizzare un documentario.
MIGRANO dunque, i parlamentari. Migrano gli aspiranti idealisti, ossia coloro i quali hanno solo l’idea della lista e a destra, per dirla con Raimondo Lazzano – una star nei social, testimone di antiche militanze – tutto questo smuoversi nella prospettiva della prossima stagione politica ha una sola spiegazione: “In cinque anni nessuno ha prodotto politica ma solo riunioni per candidarsi”.
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