La geopolitica si fa con i musei, soltanto l’Italia non l’ha capito
AChi é SIMONE VERDE Storico dell’arte, da scorso febbraio Simone Verde (41 anni) è il direttore del Complesso monumentale Pilotta di Parma Dal 2014 è responsabile della ricerca scientifica del LouvreAbu Dhabi negli Emirati Arabi. Ha pubblicato una lunga inchiesta sulle contaminazioni nell’arte italiana per il “Fatto”
ltro che EmmanuelMacron e Donald Trump. Ben prima la questione Fincantieri o lo slogan “America first”, sono dieci anni, che la competizione tra nazioni è in auge. La prefigurazione del nuovo corso si potrebbe collocare nel 2005, con il naufragio referendario della costituzione europea. Nel 2012, l’Economist ratificò l’a vv en u t o cambiamento, ma da un’altra prospettiva, con una copertina su “l’apogeo del capitalismo di Stato”, ovvero sul nuovo modello cinese, di certo non collettivistico ma molto nazionalistico, e sui suoi indubbi vantaggi in una stagione caratterizzata dall’accaparramento delle risorse. Solo l’Italia, verrebbe da dire, sembra non essersene accorta, presa eternamente dalle sue divisioni e dai suoi tormenti. Altrove le idee sono molto chiare, come emerge non soltanto negli scambi commerciali o negli equilibri geopolitici ma soprattutto nella cooperazione culturale, in particolare in ambito museologico.
NEL PROGRAMMA di Macron la cultura è “fonte di irradiamento della Francia, della lingua francese, il nostro patrimonio comune e il modello verso cui guardano tutti coloro che sono alla ricerca di senso”. Altro che liberalismo, ma una perfetta continuità egemonica con gli ultimi decenni, sostenuta da una serie di progetti, terminati o ancora in cantiere, che sostengono vigorosamente le ambizioni internazionali del paese. Uno dei più importanti è senz’altro il Louvre che dovrebbe aprire le sue porte a fine 2017 negli Emirati Arabi Uniti. Progetto pensato perché Parigi stabilizzi con un’iniziativa d’immagine la partnership con il paese arabo, ma anche per recuperare il gap critico negli studi sulla globalizzazione accumulato negli ultimi t r en t ’ anni, e non senza risvolti economici, visto che di fronte al museo è previsto un immenso centro commerciale del gruppo Lvmh.
Analoghe collaborazioni, che puntano a fare della cultura, e in particolare dei musei, uno strumento di diplomazia con evidenti ricadute politiche e commerciali, sono attualmente in atto al Museo archeologico di Rabat, al Bardo di Tunisi, al Museo nazionale di Amman o in Mali, solo per citare qualche esempio di una nuova ambizione colonialista. Un accordo di importanza strategica è stato firmato nel 2016 tra il Louvre e il Museo islamico del Cairo e dovrà portare alla riapertura dell’Istituto devastato dalla rivoluzione del 2010-2011. Al di là dei singoli casi, ben 70 sono i protocolli attivi, tra cui i Centre Pompidou di Seoul e Shangai, quest’ultimo previsto per il 2018.
Da Fincantieri alla cultura, quello della Francia non è l’unico esempio di recrudescenza nazionalistica ma, citato in riferimento agli avve- nimenti politici recenti, prova una tendenza generale in cui i paesi europei agiscono in un’agguerrita competizione dietro cui si celano strategie geopolitiche visto che intervenire nel campo dei musei significa egemonizzare i processi di elaborazione delle identità culturali degli eventuali interlocutori.
L’INAUGURAZIONE del Museo islamico di Doha, avvenuto tutto sotto la guida di specialisti anglosassoni, ha costituito il punto di partenza per una serie di cantieri in cui i vari paesi del Golfo vanno allestendo collezioni a sostegno le loro rispettive ambizioni. In Arabia Saudita non tarderà l’inaugurazione del King Abdulaziz Centre for World Culture, supportato scientificamente da un’equipe di antropologi del British Museum, per approfondire lo statuto dell’arte nelle società islamiche. Un impegno non nuovo nel Golfo, visto che la stessa istituzione britannica, in chiara competizione con Parigi, sta curando il National museum degli Emirati. Ben oltre la cooperazione culturale, dunque, ma all’interno di una logica di spartizione, la diplomazia culturale registra con particolare evidenza quanto si legge al livello della politica, ovvero, una guerra per accaparrarsi partnership e inserirsi “c ultu ralmente” nei mercati. E l’Italia?
Non è esagerato dire che il nostro Paese è del tutto assente, ripiegato, come detto, nei soliti conflitti e spesso incapace di fare squadra, o di raccogliere la sfida dell’innovazione. L’assenza in campo museologico, in particolare, non è un dettaglio trascurabile, per le ragioni dette sopra. Se numerosi sono gli italiani che lavorano a titolo individuale nei progetti citati, non esiste la prospettiva di un protocollo d’intesa tra Uffizi, Brera, Museo nazionale romano e istituzioni nascenti nel mondo perché non è riconosciuta né professionalizzata la pletora delle competenze indispensabili.
Una debolezza, stabilita dall’assenza di una scuola di formazione nazionale, che sancisce la nostra latitanza in un campo decisivo dal punto di vista geopolitico. Per dirla con Macron, “la politica culturale non è un settore come gli altri, ma esprime un progetto di società”. Senza dover cadere nelle tentazioni colonialistiche degli altri, ma mancando anzi nel mostrare una via diversa, la nostra incapacità di presentarci con una visione coerente, chiara e riconoscibile ci priva di un elemento decisivo in una competizione globale sempre più agguerrita.
Ci sono molti italiani attivi nei grandi progetti nel mondo, ma nessuna iniziativa del sistema Paese