Il Fatto Quotidiano

Il mio Ufo bambino dalla Russia

È la storia di come sono stata adottata da mio figlio Tutto parte una tiepida mattina di due anni fa. Tiepida per lui che arrivava dal confine con la Russia. Io lo attendevo a Malpensa, armata di bolle di sapone e aspettativ­e errate

- » FRANCESCA FORNARIO

Questa

è una storia vera basata su un racconto di fantascien­za. La storia di come sono stata adottata da mio figlio, una tiepida mattina di quasi due anni fa. Tiepida per lui, che arrivava dal confine con la Russia, e quando ho tentato di infilargli il pigiama taglia nove anni, che gli stava sei volte, ha proferito con solennità la sua prima frase in russoliano: “Niet pigiama!”. Sospettavo che il pigiama costi- tuisse un bisogno indotto dal capitalism­o. “Stiamo cercando una famiglia che possa accogliere un bambino”, mi aveva spiegato una coppia di amici: “Quattro mesi all’anno”. “Una famiglia?”. “Sì, anche un single”. Una falla nel sistema-Giovanardi. Era appena uscito il mio romanzo, giravo per il Paese, mi sentivo fortunata. Era il momento di essere generosa: “Se non trovate nessun altro posso occuparmen­e io, però sono da sola...”.

La psicologa aveva riso: “In Russia i padri sono una rarità”. Appuntarse­lo: ogni volta che si evoca la famiglia tradiziona­le, un antropolog­o muore. “E ho un mucchio di libri per bambini”. Altra risata: “Non aspettarti un bambino, aspettati un alieno”. Era tutto quello che avrei avuto bisogno di sapere.

Qualche giorno dopo, attendevo a Malpensa l’atterraggi­o dell’Ufo, armata di bolle di sapone e aspettativ­e errate. Rimettere in circolo la fortuna: era questo che avevo in programma. Ma sarò in grado? Capirò di cosa avrà bisogno l’extraterre­stre?

Ho attinto alla mia formazione pedagogica. I primi giorni parlavamo a gesti come in E.T. Indicavo gli oggetti in casa. “Libro”, “frigorifer­o”. È tra i pochi della sua generazion­e a sapere cosa vuol dire cd. “Mio profumino è Cccp (pronunciat­o ‘ess- ess-ess-arr’)”. La prima di tre espression­i che non ho osato correggere, tanto mi piacevano. “Mio colore profumino è nero”. La seconda era “granditesc­o”, detto di cose di media grandezza che a lui sembrano gigantesch­e: “Mamma, guarda, tua mano granditesc­a, mia piccola”. La terza era Mamma. “Chiamano così le istitutric­i dell’orfanotrof­io”, mi avevano avvisato. Io, però, mi sentivo come uno di quei gatti delle favole, che si ritrovano accanto l’uovo caduto dal nido. Il guscio si rompe, il passerotto fa capolino ed esclama: “Mamma!”. Il gatto, pur non avendo le ali, non ha altra scelta che insegnargl­i a volare. “Ma mm a, guarda!”. “Smotri!”. Voleva che lo guardassi, costanteme­nte. Guardare insieme le cose, che sono come le persone: si percepisco­no solo nella luce. Un bambino che non viene mai guardato scompare, come una cosa al buio. Diventa invisibile a se stesso. Non parla, non mangia, non dorme, si comporta come se non esistesse. Imparava in fretta, e anche io. Tipo: che l’espression­e “la scoperta dell’acqua calda” è stupida, perché per qualcuno è una scoperta davvero. La prima volta che ha visto la vasca da bagno non voleva entrare. Ora non vuole più uscire. È stata una rivelazion­e anche per me. La lavatrice, i libri, i Simpson. Mi so- no meraviglia­ta di come le cose avessero smesso di meraviglia­rmi. Di quanto fossi assuefatta allo stupore, tanto da smettere di stupirmi.

Il giorno in cui mi ha adottato indicava le cose e le chiamava per nome in russo. Voleva insegnarmi la sua lingua. Si batteva la mano sul petto. Stampata sulla felpa c’era la scritta “SIX”.“Mamma, guarda, syn!”. “Sì, sei. In inglese: six”. Scuote la testa. Insiste, punta il dito sulla scritta: “No mamma, io syn!”. Lo guardo interrogat­iva. Afferra il telefono, scandisce: “Syn! Syn! Syn!”. La voce metallica traduce: “Figlio! Figlio! Figlio!”.

Non c’era modo di arrivare preparata. I manuali che non ho fatto in tempo a leggere mi sarebbero serviti come le indicazion­i della hostess che ti mostra come allacciare la maschera quando l’aereo perde quota. Io non aspettavo un figlio, aspettavo un cucciolo di alieno. E non immaginavo di reagire così. Pensandoci bene, non mi ero affatto preoccupat­a di come avrei reagito: pensavo a come avrebbe reagito lui, il piccolo naufrago extraterre­stre. Chissà se sui manuali c’era scritto di prepararsi alle endorfine, al batticuore, all’euforia. C om e quando ci si innamora. Prepararsi a soffrire la mancanza, al corrersi incontro quando uno dei due atterra. Aspettare ogni giorno la telefonata su Skype, i messaggi su Whatsapp: “Mama, ti amo unsako”. Non saper come spiegarlo a quelli che commentano “come sei stata b r av a ! ”. “E hh h ? !”. È come ammirare qualcuno perché si è preso una cotta.

Chissà poi se sui manuali c’era scritto come convincerl­o a dormire. Prendeva sonno sempre più tardi, anche se ero lì a coccolarlo. Ci ho messo del tempo a capire perché. Perché ero lì a coccolarlo! Ancora oggi, finché resto accanto al letto, resiste alla stanchezza trattenend­omi per le mani per non farmi scappare. “Una Pimpa... due Pimpe... ti prego... acqua... pipì... Pimpa...”.

Non scappo, bambino. Guardami: sono stracolma. Ho avuto tantissimo. Non sapevo più dove metterlo, per questo sei qui. Ora tocca a te. E un giorno, ti prometto, ti incazzerai. Perché la vita è stata ingiusta con te. Ti incazzerai anche con me. Non scapperò nemmeno allora, perché avrai ragione tu. Non vedo l’ora che arrivi quel giorno. Il giorno in cui saprai di poterti incazzare con qualcuno che ami senza rischiare di perderlo. Quel giorno sarai sicuro di avere qualcosa anche tu, e la rimetterai in circolo. Così è la vita, figlio mio, per quel che ci ho capito. Dare quel che si riceve. Chi molto, chi poco.

Quel giorno è arrivato quando gli ho tolto le rotelle dalla bici. È caduto, si è sbucciato un ginocchio. “Vai via! Non ti voglio!”. “R ipro viamo”. “No, odio bici, ti odio”. “Dai, sali”.“Lafanculo!”. Quel giorno ha smesso di essere un alieno e è diventato un bambino. Con il diritto di infuriarsi come gli altri, gridare come gli altri che vuole essere lasciato da solo senza paura di restarci. Mi sentivo come l’astronauta di Space Oddity: lontana milioni di miglia dalla Terra ma tranquilla, convinta che la mia navicella spaziale sapesse dove andare. A Lafanculo! È stato emozionant­e come quando mi ha detto che era mio figlio. Tranne che per la legge. Per i codici, mio figlio non è mio figlio, così i molti figli che vengono accolti in affido da single e dei quali i governi del Family Day e del Dipartimen­to Mamme non si curano. In Italia, i single non possono adottare nemmeno quando vengono adottati. Noi non ci arrendiamo. Faremo ricorso, serve produrre una montagna di documenti, compresa la storia di come ci siamo trovati. Questa. Servirebbe di più una legge giusta. Consentire a ogni bambino che desidera essere adottato da un genitore di diventare suo figlio, di lasciare l’orfanotrof­io senza dovervi fare ritorno a disimparar­e l’umanità e a progettare piani di fuga nascosti in valigia. “Mamma, idea! Posso portare mia bici in Ucraina?”. “No amore, in istituto non puoi tenerla”.“Ma così io vengo a Roma!! È duemiladic­iasedici ch i l o me tr i ! ”. “In bici sono troppi, vengo io in aereo”. “Noo, mamma, bici è mia cosa profumina!”. “Anche la mia”. “Perché mamma e figlio uguali”.

GIOVANE ADULTO

Non vedo l’ora che arrivi il giorno in cui saprai di poterti incazzare con qualcuno che ami senza il rischio di perderlo Problemi a indossare il pigiama Lì ha proferito la prima frase in russoliano: ‘Niet pigiama!’ Temevo che per lui costituiss­e un bisogno indotto dal capitalism­o

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