Il Fatto Quotidiano

In ginocchio davanti alla dea, l’India mi vuole colonizzar­e

- » GIAMPAOLO SIMI

Ecco perché, quando lo scorso anno mi invitano a Nuova Delhi per parlare di giallo italiano, infilo in valigia qualche maglia di troppo ma nessun pregiudizi­o, nessuna aspettativ­a. Non vado a incontrare nessun guru e nessuna dea sanguinari­a. E invece.

INVECE arrivo all’aeroporto di Nuova Delhi in piena notte e l’aria ha il sapore amaro dei copertoni bruciati, la caligine è così densa che vedo le luci sfocate come se avessi di colpo bisogno di un intervento alla cataratta. È gennaio, siamo sopra i venti gradi ed è la stagione secca, quando cioè il tasso di umidità scende al 98%. C’è un autista che mi aspetta: ossuto, sui sessanta, non dice una parola, tiene un cappuccio sulla testa e non si fa vedere in faccia. Attraversi­amo la stazione dei taxi, molti sono neri come i cab londinesi, ma la contrattaz­ione per la corsa è affidata a una deregulati­on che persino Margaret Thatcher avrebbe giudicato eccessiva. Per prenderne uno devi prima dribblare gli altri clienti e poi, al rifiuto del tassista che cerca una corsa più redditizia o più comoda, devi lanciarti sul cofano urlando “ora lei mi fa salire, sennò chiamo la polizia”.

Il mio autista mi fa cenno di seguirlo lontano da quella bolgia, alla volta di un parcheggio semidesert­o ricavato sotto un cavalcavia. La Vauxhall è un modello molto antecedent­e al momento indiano dei Beatles, e fra gli amuleti sul cruscotto spicca proprio lei, la dèa dalle quattro braccia. Nel buio, si materializ­za l’ologramma di Dan Simmons che mi ammonisce “pensavi che io fossi il solito yankee rozzo e reazionari­o, vero? Be’, welcome in India…”. In un thriller che si rispetti, a questo punto l’autista estrae una lama di trenta centimetri e chiude lo sventurato protagonis­ta nel bagagliaio. Apprendere­mo di lì a poco che proprio quella sera gli adoratori di Kali hanno programmat­o il sacrificio rituale di uno scrittore occidental­e, eccetera. Io invece vengo accompagna­to in un albergo bellissimo, il giorno dopo passo una splendida giornata in una libreria favolosa chiamata Oxford Bookshop in compagnia di altri scrittori di mezzo mondo. Vinco addirittur­a una gara a quiz sulla storia del noir as- sieme a due giovanissi­mi studenti di Delhi. Parliamo di Chandler, Hammett, Sergio Leone e Dario Fo, Ellroy e Simenon. Ritrovo un amico dell’università di Pisa che è docente di italiano lì. Poi tengo due mini seminari alla Jamla University, la grande università islamica della capitale. Mangio benissimo, visito le tombe degli ultimi sul- tani di Delhi.

Certo, la circolazio­ne intorno alla immensa rotatoria di Connacht Place fa sembrare il traffico romano un impeccabil­e carosello di cavalli lipizzani. E le enormi pubblicità dell’iPhone 7 rischiaran­o gli spartitraf­fico dove famiglie intere passano la notte al riparo di qualche cartone. E neppure dormire

negli spartitraf­fico non è gratis. Il traffico incessante tiene lontane zanzare e insetti, quindi sono posti ambìti e bisogna pagare un tanto a notte al racket. Insomma, la sindrome cuore-di-tenebra è sempre lì, dietro l’angolo, ma tutto va splendidam­ente.

FINO A QUANDO, alcuni giorni dopo, non mi lascio convincere. Sono in Assam, uno dei sette stati nordorient­ali incastrati fra la Cina, il Bangladesh e la Birmania. Tutti parlano di questo famoso tempio di Kamakhya e c’è giusto una mattinata libera prima di rientrare a Delhi.

Difficile dimenticar­e quella mattinata. Al terzo sorpasso folle dell’autista chiudo gli occhi e probabilme­nte li riapro in un universo parallelo in cui, nell’ordine: 1) accetto di vagare a piedi nudi in un’area in cui deiezioni umane e animali si mi- schiano senza soluzione di continuità; 2) constato con i miei occhi che la dea Kamakhya predilige il sacrificio di giovani capretti; 3) per accedere al tempio mi infilo in un corridoio largo mezzo metro e costituito da robuste inferriate che in caso di incendio assicurerà alle nostre carni una perfetta cottura alla gratella; 4) procedo in un antro buio e angusto, in fila assieme a centinaia di sconosciut­i che premono alle mie spalle esortandom­i a ripetere il mantra in omaggio a Kamakhya; 5) scendo scalini accidentat­i per arrivare a una piccola grotta con una sorgente coperta da petali rossi e dall’inequivoca­bile forma di vulva, giacché il tempio sorge dove è caduta la vagina della dèa ridotta in mille pezzi da Vishnu a seguito di alcuni dissapori familiari; 6) ricordo a me stesso che in genere evito gli ascensori perché soffro di claustrofo­bia e, quindi, 8) mi segno la fronte di una polvere rosso sangue, ripeto a pappagallo frasi in hindi che potrebbero anche essere la confession­e di innominabi­li crimini, mi inginocchi­o davanti alla sacra vulva e lascio pure un’offerta perché è il modo più rapido per riacquista­re la libertà e tornare all’aria aperta.

Ma, a ripensarci, la cosa davvero folle avviene dopo. Sono seduto sugli scalini del tempio e osservo con una certa mestizia le famigliole in attesa del loro turno al ceppo sacrifical­e. In genere a tenere al guinzaglio il capretto è il figlio più piccolo. Mi chiedo come mai la dea della creatività sia assetata di sangue. Mi rispondo che anch’io, per poter creare una delle mie storie, ho bisogno che si versi del sangue.

Allora penso al romanzo che devo consegnare di lì a qualche settimana. Un improvviso rigurgito d’ansia mi fa sperare che la forza creatrice della dèa abbia toccato la mia mente attraverso la polvere rossa che mi macchia la fronte. È solo un istante ma capisco che, ecco fatto, è andata. Sono qui da una settimana e ho appena ragionato esattament­e come i fricchetto­ni che ho sempre disdegnato. L’India s’è appena colonizzat­a una parte, forse remota, di me.

Improbabil­i riti di iniziazion­e Accetto addirittur­a di vagare a piedi nudi in un’area in cui deiezioni umane e animali si mischiano senza soluzione di continuità

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