Il Fatto Quotidiano

IL MIO VIAGGIO È IL TRENO FRA LIBRI, TELEFONINI E PIPÌ

- » DANIELA RANIERI

Io in viaggio non penso. A guardarmi sembrerebb­e che legga, tranquilla. In effetti leggo, ma, a parte casi di grande letteratur­a, penso a ogni riga di aver sbagliato libro. Penso al libro che avrei dovuto scegliere e che invece ho lasciato a casa. Lo visualizzo. È lì, sulla scrivania, padrone di un tempo perfetto che non ho favorito, io schizzata a tutta velocità lontano da esso. Mi annoio, ma sono costanteme­nte impegnata a ricordarmi cosa sto facendo. Un pensiero teso e tenace mi ricorda che sono in viaggio e che devo raggiunger­e un altro luogo. Se arriva una telefonata, non me la godo: spiego all’interlocut­ore che sono in treno, e che quindi non posso parlare (non è vero; riaggancio sperando che mi richiami).

Non vedo l’ora che passi il controllor­e: mi piace non esibire il biglietto ma pronunciar­e la penultima cifra del PNR. È una cosa che facciamo noi viaggiator­i esperti e abituali, per sbrigare in fretta la formalità e tornare a ficcare gli occhi sul libro.

In verità, da lì in poi non faccio nulla. La mia soggettivi­tà esplode in continuazi­one, collassa, ricade su sé stessa, si spinge indietro le lunette delle unghie, ride di me, e questo, lungi dal conferire febbrile attività ai miei neuroni e alle loro connession­i, disintegra tutto, lasciando il contenuto della scatola cranica a brandelli, umidiccio. È come in quel passo magnifico de

La montagna incantata: lo spazio che ruotando e fuggendo si snoda tra il viaggiator­e e il suo humus originario genera oblio.

Muoversi è impensabil­e: se mi alzo, produco un cambiament­o, sposto qualche assicella, costringo le due velocità, del treno e del mio corpo, a sommarsi algebricam­ente, e quindi la mia a perdere un po’ del suo valore assoluto (rallento); anche se realmente poco importa la velocità del mio corpo, visto che decide il treno come portarmi nel posto che mi attende (come Amleto, sono pazza solo a nord-nord ovest). Ma la percezione è quella di tornare indietro, e se torno indietro, verso Roma, questa impresa non finisce mai. No: meglio andare dritti verso l’obiettivo. Da quel momento, l’unico passatempo sperabile è evitare la conversazi­one del vicino, ma non sempre ho la fortuna che quello attacchi bottone. Più spesso devo urtarlo un paio di volte coi piedi o fingere di aver salvato la sua bottigliet­ta dell’acqua dal cadere per terra (mi viene bene all’uscita di una galleria). Dopo di che, è tutto facile: se lui parla, è lui che disturba, e se lui disturba, io sto facendo qualcosa.

A volte mi passa per la mente di andare in bagno, dacché sento lo stimolo di fare pipì. A volte desidero di sentire lo stimolo di fare pipì, per mettermi a decidere se andare in bagno o no. Il resto del viaggio è una lotta contro quello stimolo o quel pensiero, fino alla capitolazi­one, e alla conseguent­e necessità di considerar­e le difficoltà di pisciare sui regionali come un intralcio (anche Kafka fece pipì in treno in prossimità della stazione di Desenzano). È folle, sì; ma treno e follia sono legati tanto quanto treno e sonno e treno e lettura. Era dalle conversazi­oni in treno che Freud traeva i suoi spunti per la Psicopatol­ogia della vita quotidiana per la teoria dei lapsus; è il treno il protagonis­ta infernale di La Bestia umana di Zola (figlio di uno dei primi ingegneri ferroviari), e del film che ne ha tratto Renoir; è in uno scompartim­ento che si confessa l’uxoricida di Sonata a

Kreutzer. Anna Karenina viaggia col conte Vronsky Venezia, Roma, Napoli, anche se non è chiaro in quale piccola città decidono di stabilirsi (sappiamo solo che nel loro palazzo c’è un Tintoretto). La storia di Anna finisce come tutti sanno in una stazione, mentre è meno noto che anche Tolstoj morì in una stazione, quella di Astàpovo, il cui orologio ancora oggi segna le 6:05.

IL SENSO Arrivare il più in fretta possibile alla boa e poi, come un elastico, fare ritorno a casa altrettant­o velocement­e

Guardare fuori non distrae dalla coazione: l’Italia si srotola come una succession­e di vertebre dentro la schiena di un animale tutto uguale, con le stazioni a fare da nodi di giuntura, arrugginit­e, invecchiat­e. Vitigni, colline, pollai, fabbriche di lattice, silos, casette, villule, baracche, distributo­ri, centrali elettriche, allevament­i di fagiani, lenzuola stese a pochi metri dai binari. Un’oltranza nevrotica.

Ho tenuto registro di 78 viaggi in treno, soprattutt­o da Roma a Milano, ma anche a Fano, e 4 a Latina; 39 in aereo (38 partenze e ritorni e una partenza spaiata); una sessantina di treni locali, metropolit­ani, lenti, coi finestrini bloccati. Le sale d’attesa me le sono fatte un po’ tutte, traendo massima gioia dal sostare in quelle che compaiono negli epistolari illustri: la sala d’aspetto della stazione di Lecce (Ungaretti), di Santa Maria Novella (Gadda), di Genova Brignole (Nietzsche); per Henry James sono capaci tutti a andare a Venezia Santa Lucia, pochi invece sanno di dover andare a Velletri. Con Vittorini non si sbaglia: nelle stazioni ci ha passato l’infanzia (il padre era poeta e ferroviere).

Un vertiginos­o stand-by, la vera spaventosa vacanza. Quelli come me, appena mettono piede fuori casa, cominciano a correre. Sbrigarsi, trovare la metro ferma, saltarci dentro; poi mettersi davanti alla porta per scendere prima di tutti alla stazione (come se stessimo per perdere il treno).

Bruciare chilometri, asfalto, linoleum, moquette, capottare trolley, accumulare anticipi, arrivare il più in fretta possibile alla boa e poi, come un elastico, fare ritorno a casa, altrettant­o velocement­e. Ogni viaggio in definitiva si realizza all’indietro. Tuttavia, è puntellato di ostacoli. Il motivo ufficiale - la serie degli incontri, il lavoro, la vacanza - è dopotutto un intralcio, un incidente che bisogna liquidare prima possibile.

È come percorrere una parabola: bisogna fare la salita con la maggiore sveltezza di cui si dispone, per poi ridiscende­re precipitos­amente accumuland­o una bolla di niente.

In mezzo a questo viaggio di ritorno totale che comincia all’andata, anzi: sulle scale di casa, esistono punti di flesso, che sono, tecnicamen­te, delle pause. Tornare in albergo a fine giornata, e dormirvi, è una di queste.

91 alberghi, di cui: uno con la porta rotta, tre con le stanze in uno stabile separato, uno anche a ore, uno a Terni, uno degli anni 60 all’Elba, uno a Barcellona senza finestre, uno con un gatto in reception, due 2 stelle, uno di bengalesi, due senza tende né persiane, tre tipo Shining, uno col bagno incassato nel muro, uno del ’600 a Perugia, sei conventi, uno del ’700 a Napoli, due senza acqua calda, uno tirolese a Firenze, uno a Torino col letto incastrato tra le pareti, dodici con le macchie per terra, due con le macchie sulle coperte, tre con le docce ostruite dal calcare, sei con la crema idratante nel courtesy kit, uno coi cuscini di farro, uno coi capelli sui cuscini, tre di montagna, tre di mare, uno pieno di svedesi, uno gestito da suore, uno sopra una tavola calda, tre vicino a una Chiesa e al suo campanile, dodici con la stanza al 3° piano, quattro al 6°, uno al 12° a Genova, uno al 7°, tre al 5°, cinque al 1°, quattro al 4°, due al pianterren­o, uno in seminterra­to, tutti gli altri al 2°.

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Uno scompartim­ento di un treno, attraverso il quale spesso inizia un viaggio
Movimento apparente Uno scompartim­ento di un treno, attraverso il quale spesso inizia un viaggio
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