Il Fatto Quotidiano

Lo scheletro che brucia all’ombra di Nerone

Gli spettacoli dovevano riprendere l’8 agosto Così non è stato. E del musical del secolo resta solo l’ecomostro

- © RIPRODUZIO­NE RISERVATA » ALESSIA GROSSI

Si propagò da qui il più grande incendio della storia di Roma, nel 64 d.C. Tra il colle Palatino e il Celio. E se quell’incendio, sei giorni di rogo che devastaron­o la città, non ci fosse stato, il Colosseo non sarebbe mai stato costruito. L’Anfiteatro Flavio, uno dei monumenti più visitati al mondo, nel cui

skyline da qualche mese, ironia della sorte, si è inserito il tempio al fallimento della cultura in Italia: il palco mostro sotto i cui riflettori avrebbe dovuto rivivere proprio la storia dell’incendiari­o imperatore che cantò la Troia in fiamme mentre la capitale del suo impero andava irrimediab­ilmente a fuoco: il Divo Nerone Opera Rock.

ORA ROMA BRUCIA davvero, la sindaca Virginia Raggi si fotografa con il profilo neroniano, in città si registrano 42 gradi all’ombra, sul Palatino arrivano autobus di giapponesi con ombrelli parasole, e il palco di 36 metri di larghezza, 27 di profondità e 14 di altezza nell’area da 3 mila posti di Vigna Barberini, è ancora lì.

Ma dello spettacolo resta soltanto la scenografi­a imponente, quella da kolossal, coperta dalle quinte di tela bianca su cui dovevano essere proiettate le scene troppo maestose per essere ricreate dal vivo, il tutto realizzato dai tre volte premio Oscar Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Niente più luci, né casse: tutto smontato. Lo scheletro di ferro ha fagocitato tutto. E proprio come dopo un incendio, su ogni cosa regna l’abbandono. E le cicale. Gli uomini sono fuggiti. Nessuna traccia delle recite che dovevano riprendere l’8 agosto. Anche dal gabbiotto che all’ingresso della Via Sacra accoglie i turisti e nel cui cono d’ombra trovano spesso riparo dall’insolazion­e. Dentro, dietro ai vetri di quella che fu la biglietter­ia, una bottigliet­ta d’acqua vuota saluta le altre sue compagne, buttate lì dai turisti di cui sopra. Sullo sfondo le locandine infuocate di “Nero is Alive”. Insomma.

“Scusi come si fa per vedere lo spettacolo?”, domanda una signora italiana, evidenteme­nte una guida turistica agli addetti alla fila del Palatino. “Ma non credo ci sia lo spettacolo, lì è tutto chiuso”, risponde il ragazzo alle transenne. E la guida riferisce in inglese al gruppo dei suoi.

Lo spettacolo è finito, ed è proprio il caso di dirlo, gli amici se ne vanno. Prima, Lazio Innova, società della Regione Lazio, unica ad aver contribuit­o a mettere su l’opera con un finanziame­nto di 1 milione e 50 mila euro: ora pare li rivoglia indietro per inadempi- mento di contratto. Ma ancora prima, a sfilarsi era stato uno dei due produttori, lo stesso Jacopo Capanna, presidente della Nero Adventure Spa, costituita appositame­nte per mettere su lo spettacolo insieme a Cristian Casella (fratello del Marco nell’ufficio stampa di Silvio Berlusconi e con lui beneficiar­io di appalti tv dalla Rai). Alle cui dimissioni aveva fatto seguito la protesta di attori e maestranze, senza stipendio da maggio. In tutto 140 lavoratori dello spettacolo a cui non sono state pagate né le prove né le 12 repliche. E, ultimi ma non ultimi, tutti i famosi premi Oscar elencati dai produttori per chiamare il pubblico, Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo, Franco ed Ernesto Migliacci, Gino Landi e Gabriella Pescucci, che sono passati alle vie legali per vedere pagati i rispettivi compensi. Questo, mentre sulla pagina Facebook dell’opera – unico punto di riferiment­o rimasto aperto in Rete che ricordi cosa ci stia a fare nella realtà quel mostro di ferro sul Palatino – la produzione continua ad accusare l’Italia, la burocrazia, i nemici dell’im- presa culturale, tirando in ballo anche il Papa di cui “si ricorda il recente appello alle due realtà più importanti: Mediaset e Sky” che come i lavoratori di Nerone rischiano di restare disoccupat­i. Sulla stessa pagina paventano anche secondi fini di “chi ha beneficiat­o” dello stop dello spettacolo, quello imposto il 19 giugno dal dipartimen­to Attività culturali di Roma per l’assenza di autorizzaz­ione a sforare il livello di rumore consentito in un’area archeologi­ca e abitata.

A DENUNCIARE il superament­o dei decibel erano state le religiose della Fraternità Monastica di Gerusalemm­e alloggiate nel convento di San Sebastiano al Palatino, in preghiera e raccoglime­nto che si erano ritrovate al centro dell’Opera rock. Tutto questo avveniva a pochi giorni soltanto da quella conferenza stampa in cui i produttori si erano spinti a parlare di un successo tale del musical che anche la Rai l’avrebbe voluto e di cui avrebbe acquistato i diritti.

Un’atmosfera del tutto diversa, da quella che aveva accolto lo spettacolo fin dalla pri- ma stampa con fischi e abbandoni in sala (e che sala: sotto si scende su Roma).

Per non parlare dei biglietti rimasti invenduti su TicketOne e non acquistati evidenteme­nte neanche da quei circuiti di turisti “beoti” che, evidenteme­nte, stando alle dichiarazi­oni programmat­iche degli ideatori non avrebbero visto l’ora di salire sul punto più alto del colle romano per assistere alla messa in scena di un kolossal rock. Su Facebook, per ora, a chiedere conto del suo biglietto è soltanto una donna spagnola, che ignara di tutto, pare avesse acquistato l’entrata per fine agosto.

Ma, ormai è chiaro, lo spettacolo non riprenderà nonostante l’affannosa ricerca di nuovi soci pronti a pagare stipendi e maestranze. Al Palatino per ora cantano solo le cicale, e sul Tempio di Eliogabalo, su cui l’ecomostro ancora insiste, l’unico Invictus è – come al tempo dell’imperatore – il Sole.

 ?? Ansa ?? Il palco sul Palatino Sei metri di larghezza, 27 di profondità e 14 di altezza e un’arena da 3.000 posti nell’area di Vigna Barberini
Ansa Il palco sul Palatino Sei metri di larghezza, 27 di profondità e 14 di altezza e un’arena da 3.000 posti nell’area di Vigna Barberini
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